ROMA – Se si pensa al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson (dal 1913 al 1921, secondo presidente democratico) lo si ricorda quale promotore principale dell’antenata dell’Onu, quella Società delle Nazioni istituita al termine della disastrosa prima guerra mondiale durante la conferenza di Versailles. Una organizzazione transnazionale per risolvere crisi e conflitti tra le nazioni senza ricorrere alle armi. Un pacifista doc, insignito anche del premio Nobel per la Pace.
A ricordarci invece che il 28° presidente degli Stati Uniti fosse un razzista inveterato, un entusiasta soppressore dei pur timidi avanzamenti nell’integrazione dei cittadini di colore, ci hanno pensato gli studenti della storica e prestigiosa università di Princeton, di cui Wilson è stato uno dei più insigni allievi. Il suo dichiarato razzismo – dicono gli studenti – è una macchia oltraggiosa per l’istituzione universitaria che, al suo nome e alla sua memoria, ha intestato la School of Public Affairs.
“Una istituzione di elite – riferisce Andy Newman sul New York Times – all’interno di di una istituzione di elite”. Come dire il massimo degli onori. Eredità controversa, tuttavia, al punto che il gruppo di pressione anti-Wilson chiede all’ateneo di riconoscerne i tratti ostinatamente discriminatori nei confronti degli afroamericani, di togliere il suo nome dal scuola di public policy e dai convitti del college. Per capire l’influenza, nefasta, dell’azione politica nei confronti dei neri è utile, e commovente, l’articolo di Gordon J. Davis, sempre sul New York Times (“What Woodrow Wilson Cost My Grandfather”). L’esperienza diretta, cioè, di quanto costarono al nonno del giornalista, le politiche apertamente discriminatorie di Wilson.
Ma fu anche un razzista sputato. E a differenza di molti dei suoi predecessori e successori alla Casa Bianca, inserì quel razzismo nell’azione governativa. In particolare, la sua amministrazione si impegnò promosse la segregazione negli uffici del governo federale, distruggendo le carriere di migliaia di bravi ed esperti servitori dello Stato di colore, incluso John Abraham Davis, mio nonno per parte di padre.
Afro-americano nato nel 1862 da un facoltoso avvocato bianco di Washington e dalla sua governante nera, mio nonno era un bel giovane, intelligente ed ambizioso di colore. Emulava il suo idolo, Theodore Roosvelt, nello stile e nel modo di vestire […] Anche durante le severe restrizioni al sud della segregazione di Jim Crow, Washington e gli uffici federali offrivano ai neri reali opportunità di impiego e avanzamento […]
Dopo una lunga carriera, da semplice addetto a lavori manuali, aveva raggiunto un livello direttivo di medio livello. Dirigeva un ufficio dove molti degli impiegati erano bianchi. Possedeva una fattoria in Virginia e un appartamento a Washington. Nel 1908 guadagnava la considerevole somma, per un afro-americano, di 1400 dollari all’anno.
Solo pochi mesi dopo il giuramento da presidente di Wilson nel 1913, tuttavia, mio nonno fu trasferito. Fu sballottato di dipartimento in dipartimento […] Alla fine del mandato di Wilson mio nonno era un uomo distrutto […] Il trasferimento di mio nonno fu parte di un sistema di purghe del governo federale; con l’approvazione di Wilson, nel giro di pochi anni praticamente tutti gli afro-americani furono rimossi dai posti di responsabilità, trasferiti a mansioni non intellettuali, o semplicemente licenziati […] (Gordon J. Davis, New York Times).