Repubblica: Eugenio Scalfari vs Ezio Mauro-Massimo Giannini-Carlo De Benedetti

Eugenio Scalfari accanto ad Ezio Mauro (LaPresse)

ROMA – C’è una spaccatura a Repubblica: da una parte il fondatore Eugenio Scalfari, dall’altra il direttore Ezio Mauro, il vicedirettore Massimo Giannini e l’editore Carlo De Benedetti.

Una divisione evidente in seguito al caso Anna Maria Cancellieri, con Scalfari dalla parte del governo Letta e quindi delle non dimissioni del ministro della Giustizia, e Mauro-Giannini-De Benedetti a favore delle dimissioni che avrebbero segnato la fine del governo di larghe intese e spianato la strada a Matteo Renzi.

La “Dagoanalisi” di Dagospia racconta così la Repubblica divisa:

“Nel suo pamphlet dal titolo in realtà poco invitante perché fin troppo abusato per ogni pur onesta ragione ideologica, “Il libro nero della società civile” appena pubblicato per gli Editori Riuniti, il filosofo del diritto Michele Prospero regala ai lettori un’azzeccata definizione del cosiddetto “partito-la Repubblica”: il giornale del “grillismo dei ceti riflessivi”.

Al volo, si potrebbe suggerire allo studioso, che pure nel suo volume si occupa ampiamente del Fonzie-pensiero, la variante: il quotidiano “del renzismo che piace alla gente che piace”. Di destra, di centro e di sinistra. Come recitava un vecchio slogan pubblicitario di una marca d‘automobili.

Il sindaco di Firenze è l’ultimo eroe populista dell’anti-politica che il quotidiano diretto da Ezio Mauro ha preso sotto la sua ala protettiva.
Un “abbraccio” tanto stretto che molti lo considerano addirittura mortale per il futuro candidato-leader del post centrosinistra.

E la battaglia campale con il dispiego delle migliori firme persa l’altro giorno dal giornale edito da Carlo De Benedetti, ex tessera numero uno del Pd, in occasione dell’impeachment (respinto dalla maggioranza dalla Piccola Intesa) al ministro Cancellieri, non sembra essere di buon auspicio per le ambizioni smodate del “civettuolo” Matteo Renzi: leader di governo e segretario del Pd.

La storia di “mamma Repubblica” che soffoca nella sua culla (di carta) i figli appena nati del resto ha inizio nel 1991 quando sull’onda dell’anti-partitocrazia e della sua nomenklatura, Eugenio Scalfari scambiò per un cavallo di razza il ronzino referendario, l’ex dc di destra Mariotto Segni.

E dimenticati gli amori sacri per Ugo La Malfa e Ciriaco De Mita, il fondatore e il suo editore non si turarono, montanelliamente parlando, neppure il naso di fronte alla calata dei barbari della Lega guidati a Roma dall’eroe di Pontida, Umberto Bossi.

Ma dopo aver invocato e sostenuto – in compagnia del Corrierone di Paolo Mieli (“La rivoluzione italiana”) e del settimanale arcoriano, “Panorama” del nemico Silvio Berlusconi (“Di Pietro facci sognare”) -, la devastante opera di bonifica dei tribunali di Mani pulite, il sommo Eugenio si è ritrovato a palazzo Chigi il Cavaliere pompetta.

E mai c’è stato un accenno di autocritica da parte dei “giornalisti senza pietà” per non fermare “ipocritamente” le nuova Norimberga come fa, onestamente, l’ex vice direttore di “Espresso-la Repubblica Giampaolo Pansa nel suo ultimo volume “Sangue, sesso, soldi” (Rizzoli). Mentre sul “Corriere della Sera” uno storico illustre e serio del calibro di Luciano Canfora, scrive un super markettone per elogiare l’ultimo lavoro dello storico senza storia, Paolo Mieli, che sulle vicende di Mani pulite avrebbe molto da raccontare e di cui battersi il petto.

Già, per tornare a Scalfari verrebbe da dire: il diavolo fa i coperchi, ma non le pentole.
Così, nel giro di vent’anni per qualche copia in più e in nome dell’antipolitica, “la Repubblica” ha dovuto aggiornare il suo credo populistico-leaderistico fiancheggiando apertamente tutte le new entry nel teatrone della politica: da Mariotto Segni a Mario Mortimer-Monti. Da Beppe Grillo a Matteo Renzi.

L’ultimo bamboccio che per Ezio Mauro e il suo editore valga la pena di sostenere.
Anche al prezzo di guastare pure il sangue a Eugenio Scalfari e al suo amico, il capo dello Stato Giorgio Napolitano.

Com’è accaduto, appunto, in occasione della richiesta di dimissioni, più che fondate sul piano politico, del ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, che si era data un gran da fare per ottenere la scarcerazione ad una figliola di don Salvatore Ligresti, detenuta in attesa di giudizio e non ancora condannata da un tribunale. Insomma, anche lei un detenuto in attesa di giudizio.

Non è di tutti giorni che il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e il suo padrino editoriale, Carlo de Benedetti, vada in contro a una simile disfatta senza che ciò segnali il disagio che sembra respirarsi ai piani alti del giornale.

“Lo Stato non professa un’etica, ma esercita un’azione politica”, osservava l’intellettuale liberale Piero Gobetti. E Scalfari, che di quel pensiero è allievo e maestro, sapeva benissimo che venendo meno la ragione politica, il “caso” Cancellieri con le sue dimissioni avrebbe provocato la fine del governo Letta e il tramonto della stella polare di Napolitano che fa da padre-guida nel firmamento politico-istituzionale.

Il che significava elezioni anticipate nella prossima primavera, che avrebbero spianato finalmente la strada alle ambizioni di Matteo Renzi e della sua “Repubblica”, firmata stavolta solo dal trio Tre-scano Mauro-Giannini-De Benedetti.

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