Adesso l’Italia del modo che prevale sulla sostanza dibatte sul dopo referendum alla Fiat di Pomigliano, dove ha vinto il “sì” ma in modo tutt’altro che rassicurante, per l’azienda, che dovrebbe trasferire dalla Polonia la linea di produzione della Panda, investendo 700 milioni di euro. La percentuale dei voti favorevoli all’accordo con la Fiat, firmato il 15 giugno da Cisl e Uil e non da Cgil, è stata inferiore al 63%, ma il 36% di voti contrari pesa ora come un macigno, perché vuole dire che un lavoratore su tre, nel segreto dell’urna e senza condizionamenti, ha detto che quell’accordo non gli va proprio giù. Il voto contrario ha un significato importante anche per la quasi totale partecipazione al referendum: hanno votato in 4.642 sui 4.881 aventi dritto.
La vicenda non appassiona molto la massa degli italiani, lacerati dal dramma Italia o Padania e da Lippi o non Lippi, corollario del più grande cosmico tema dei mondiali di calcio. Ma interessa quei pochi che ancora pensano che per l’Italia ci sia ancora qualche speranza oltre il pallone e lo spettacolo non è molto confortante.
La storia di Pomigliano, per cui non si è aperto certo un cammino in discesa, ha origini lontane e ormai dimenticate e anche rimosse dai più. Lo stabilimento di Pomigliano, è nato negli anni ’70 per un insano disegno dell’Iri e della sua Finmeccanica (ahi ahi sempre la Finmeccanica) di costruire automobili ai piedi del Vesuvio, in una zona che non appariva offrire terreno fertile a una cultura industriale. L’Iri voleva creare l’anti Fiat, aprendo una testa di ponte ai giapponesi della Nissan e così nacqua l’Alfasud, una automobile di cui probabilmente non si conserva nemmeno un esemplare in un museo, tanto era infelice nell’aspetto e ancor più nella realizzazione.
La fabbrica fu realizzata con tutti i condizionamenti ambientali, territoriali e anche sindacali che si possono immaginare collegati con un impianto a capitale pubblico e gestito dall’Iri in provincia di Napoli: il risultato fu che anche il mito giapponese si infranse a Pomigliano e l’innesto della cultura industriale e della efficienza produttiva nipponiche nella tradizione automobilistica dell’Alfa Romeo naufragò nel mare di microconflittualità e anche peggio che resero la fabbrica ingestibile e l’auto che ne usciva inguardabile e inguidabile.
Sono passati più di trent’anni, l’Iri non c’è più, l’Alfa Romeo è solo un marchio del gruppo Fiat, anche la Fiat non si sa per quanto ancora resterà come casa automobilistica indipendente, ma Pomigliano è ancora lì, monumento all’assurda idea di costruire grandi fabbriche lontano dai mercati, per la prima volta concepita da Mussolini negli anni ’30 e poi sviluppata nell’era democristiana con risultati catastrofici.
Molti dei mali che caratterizzarono Pomigliano all’origine si sono stemperati, cos’ come l’intera Italia è cambiata e si è addolcita, ma il germe della conflittualità e della ribellione ha comunque ancora molta presa. L’aria che tira è espressa dalle parole dette nella serata di martedì all’uscita della fabbrica da alcuni lavoratori dello stabilimento, con in mano solo le primissime proiezioni: “Anche se vince il sì la lotta per i nostri diritti continua”.