ROMA – Dopo la pausa di riflessione riprende la trattativa sulla riforma del welfare: obiettivo del governo chiudere la partita sugli ammortizzatori sociali, flessibilità in uscita, flessibilità e tutele in entrate entro due settimane. La spina dell’articolo 18 verrà estratta per ultima. Per ora si ricomincia da dove ci si era interrotti: i soldi, dove trovare le risorse utili per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali, armonizzati, razionalizzati, ma estesi a una platea più ampia di lavoratori disoccupati. Due miliardi sarebbero saltati fuori, il ministro Fornero assicura che il governo li metterà sul piatto: probabilmente verranno fuori dai risparmi della riforma delle pensioni.
La Cgil aveva calcolato che ne servirebbero almeno 4. Le aziende e i lavoratori continueranno a versare la loro parte di contributi: per le medie-grandi imprese poco cambierà (anche perché dal 2017 non pagheranno più lo 0,30 per cento sul monte salari a copertura della mobilità), le piccole invece (chiamate ora contributi minimi) dovranno gradualmente versarne di più. Resterà in vigore anche la cassa integrazione straordinaria ma in maniera più circoscritta. Comunque la riforma cambierà il modo di assumere e di licenziare nelle aziende con più di 15 dipendenti. Vediamo come a partire dalla controversia più lacerante, quella sulla flessibilità in uscita o dei licenziamenti facili.
Come ti licenzio: quando si reintegra e quando si indennizza. Fino ad oggi, in un’azienda con più di 15 dipendenti, senza giusta causa o per motivi economici (ristrutturazione per un’azienda in difficoltà economiche) non potevi essere licenziato perché davanti al tribunale, il giudice chiedeva il reintegro e l’indennità. Dopo la riforma cambiano le modalità, in particolare viene limitato il campo discrezionale del giudice. Tre sono gli esempi. Nel primo, ove il giudice ravvisasse la causa discriminatoria del licenziamento, resterebbe inalterato il diritto al reintegro in azienda.
Ricordiamo che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non disciplina le regole sui licenziamenti, ma stabilisce quando è giusto e motivato il rientro in azienda. Quindi, l’articolo 18 varrebbe solo nei casi di discriminazione. Nel secondo caso, quello dei motivi economici, il giudice deve solo appurare che il licenziamento non sia l’esito di un trattamento discriminatorio: se questo non c’è, il giudice non può sindacare se effettivamente sussistano o meno le condizioni economiche e organizzative per cui il lavoratore è stato licenziato. Quindi potrà stabilire solo un congruo indennizzo, ma non il reintegro in azienda.
Nel terzo caso parliamo di licenziamenti per motivi disciplinari, ambito ampio che comprende i lavoratori con scarsa o nulla produttività, dai fannulloni a coloro che l’azienda ritiene siano un peso. Anche qui il giudice deve decidere: se ritiene non fondati i motivi disciplinari finora decideva per reintegro e indennizzo. Con la riforma il giudice può decidere o per il reintegro, o per l’indennizzo, magari esteso a 18 mensilità come succede in Germania. La Cgil si è già detta contraria in linea di principio a modificare l’articolo 18 in nessun caso.
La Confindustria vorrebbe che l’articolo 18 non si applicasse anche per i motivi disciplinari. Il compromesso potrebbe trovarsi limitando l’uso dell’articolo 18 a motivi discriminatori e disciplinari: ma per le motivazioni economiche campo libero alle aziende. Tutti sono d’accordo a una via preferenziale per la discussione delle cause del lavoro, troppo lente, un impedimento concreto alla flessibilità invocata. Compensazioni utili alla trattativa possono essere trovate sulla flessibilità in entrata. E soprattutto sullo stop promesso da Fornero alle dimissioni in bianco per le donne, su norme di rappresentanza sindacale che non penalizzino la Fiom e su garanzie per i lavoratori cosiddetti “esodati”. La riforma sui licenziamenti riguarderà sicuramente i nuovi assunti, per gli altri si aspetteranno almeno due anni, comunque la fine della crisi economica.
Come ti assumo, meno contratti, meno flessibilità “cattiva”. Quando un giovane entra in azienda è raro che ci entri attraverso un contratto a tempo indeterminato. Attualmente sono 46 le fattispecie contrattuali a disposizione delle aziende per regolare una assunzione. Sono troppe, è una frammentazione che mina le possibilità di un lavoro stabile, condizione necessaria anche alle aziende per formare personale più produttivo ma molto utilizzato per la paura di non poter licenziare in caso di difficoltà.
L’esecutivo vuole rendere l’apprendistato l’unico canale d’ingresso nel mondo del lavoro: al neoassunto verrebbero garantite maggiori garanzie in termini di formazione, ma dopo la fine dell’apprendistato l’assunzione non scatterebbe automatica. Però le aziende potranno utilizzare questo strumento appunto per formare e non solo per risparmiare. Basta con il ricorso ai vari contratti tito co.co.pro, collaborazioni false che nascondono rapporti esclusivi, partite Iva fittizie che mascherano “dipendenti” spacciati per liberi professionisti e tutta quella gamma di espedienti contrattuali definita “flessibilità cattiva”.
A questo proposito Fornero ha in mente la certificazione obbligatoria della formazione fornita. L’azienda sarà incentivata a formare prima e dopo la potenziale assunzione. L’apprendistato garantisce risparmi fiscali, un inquadramento inferiore due livelli sotto il grado effettivamente spettante. Se l’azienda infine assume l’apprendista definitivamente otterrà altri “sconti”. L’apprendistato sarà potenziato, si cercherà di estenderlo oltre il 20% di giovani che già ne usufruiscono.