Le orme del dragone cinese: 13% del debito pubblico e shopping nel Made in Italy

ROMA – Silenziosa, spietata, con un occhio, anzi due, a investimenti e ricavi. La Cina sta diventando uno dei principali investitori del Made in Italy. Nel settore del lusso ha fatto rumore l’apertura del capitale della holding Ferragamo e il comparto immobiliare è stato scosso dalla partecipazione di un fondo cinese a una cordata pronta a rilevare da Risanamento l’area di Santa Giulia.

Un’inchiesta del Sole 24 Ore rivela che l’interesse della Cina per l’Italia come destinazione di investimenti e acquisizioni sta crescendo. Si parte da volumi non spettacolari, ma l’accelerazione è evidente. Il miliardario di Hong Kong Peter Woo, uno degli uomini più ricchi del pianeta, ha da poco rilevato l’8% della holding Salvatore Ferragamo Italia. Ancora più recente è l’offerta da 1,2 miliardi di euro presentata da una cordata di imprenditori italiani e dal fondo Shanghai Super Ocean Re per acquisire da Risanamento l’area milanese di Santa Giulia.

Operazioni che confermano un salto di qualità, nel primo caso per il nome, un brand storico del made in Italy, nel secondo per le possibili implicazioni di un rafforzamento dell’interesse cinese sul comparto immobiliare. Sul fronte degli investimenti diretti in progetti greenfield, Invitalia negli ultimi due anni ha contribuito, assieme ad altri attori istituzionali dell’internazionalizzazione – dalla Farnesina all’Ice alle regioni – all’insediamento di altre 15 aziende cinesi. Lo stock relativo al periodo 2005-2009 è di 200 milioni di euro, pari al 4,2% dell’afflusso totale, ancora poco rispetto alla capacità d’attrazione della Germania (circa il 25%), ma segnale incoraggiante di un certo dinamismo.

Il 50% degli investimenti si concentra ancora nelle attività di trading, a conferma del fatto che le aziende cinesi vengono in Italia soprattutto per servire le proprie esportazioni. Operazioni recenti gettano però una nuova luce sulle modalità e sulle motivazioni che spingono a investire nelle nostre imprese, nel nostro territorio.

Un altro settore “caldo” è stato, fino alle recenti modifiche legislative, quello delle rinnovabili. Prima come mercato di sbocco per la vendita di pannelli solari made in China, poi, però, con un approccio più strutturato, come quello di Cecep (China Energy Conservation & Environment Group) che sta completando un primo investimento da 30 milioni di dollari per la realizzazione di impianti fotovoltaici in Puglia e ne prevede altri 100 per l’acquisizione e la costruzione, sempre di impianti, per una potenza complessiva di 20 MW.

Secondo le stime di Alberto Forchielli, presidente Osservatorio Asia, oggi è in mani cinesi circa il 13% del debito pubblico italiano. Si tratta di qualcosa come 230 miliardi di euro di BTp, CcT e BoT. Non è un dato ufficiale, ma una stima calcolata incrociando varie informazioni. Lancia però un messaggio chiaro: tenendo conto che circa il 40% dei 1.800 miliardi di debito pubblico italiano è all’estero, Pechino è senza dubbio uno dei principali investitori d’oltre confine. Forse il principale. I veri BoT-people, insomma, stanno in Cina.

Secondo le stime di Standard Chartered a Shangai, la Cina ha ormai il 26-28% delle riserve valutarie investite in euro. Dato che le riserve della Cina ammontano a 2.850 miliardi di dollari, l’investimento in euro ammonterebbe a 741-798 miliardi di dollari. Si tratta di stime spannometriche, perché non esistono cifre ufficiali: le modalità con cui sono investite le riserve è un segreto di stato.

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Alessandro Avico