Il risultato del referendum di Mirafiori continuerà a dividere l’Italia, anche se sotto sotto, tutti hanno tirato un respiro di sollievo, probabilmente anche i sostenitori del no, che potranno continuare la loro polemica senza il rischio che Sergio Marchionne, il castigamatti, trovi nel voto degli operai la giustificazione per fare quello che comunque probabilmente farà.
Andremo avanti chissà per quanto ancora con i fuochi di artificio delle dichiarazioni, per lo più insulse e inutili, senza che ci si occupi più di ciò che il referendum ha fatto passare in secondo piano, polarizzando l’attenzione di tutti sulla decisione di poco più di cinquemila operai, dei quali nessuno nega il valore simbolico ma che francamente sembrano solo in parte rappresentativi della realtà italiana di oggi e anche della classe operaia, specie se non limitiamo il diritto di farne parte su base rigorosamente etnica.
Restando appesi fino all’alba di sabato al referendum di Mirafiori, parte dei sindacati e della sinistra hanno semplicemente fatto il gioco della Fiat e di Marchionne, si sono esauriti nella difesa assoluta dei diritti e non hanno più avuto voce e forza per chiamare l’azienda a rispondere di cose come la sua crisi, il suo futuro, i veri progetti di Marchionne, il destino che da qualche parte è stato già scritto per la Fiat italiana. Nel loro inconscio, sentivano che il destino era stato già scritto e hanno estratto, dalla rassegnazione, la forza della disperazione di un’ultima lotta.
La Fiom, e per forza di irresistibile attrazione la Cgil, sembrano pervase dallo spirito di Masada, quel gruppo di indomabili eroi della resistenza ebraica alla prepotenza romana, tutti morti, suicidi, nella fortezza al sommo dell’omonima montagna. U
L’arrocco del sindacato non trova riscontro solo nella vicenda Fiat, ma ad esempio nel recente rifiuto della Fiom di un accordo che preveda la mancata applicazione ai nuovi assunti dei vantaggi economici derivanti dai contratti integrativi sottoscritti in passato. Con un po’ di immodestia, devo dire che un accordo del genere l’ottenni, più di dieci anni fa, dai giornalisti di Repubblica, che non sono certo noti per la loro tenerezza in campo sindacale, naturalmente in cambio di nuove iniziative editoriali, che non sarebbero partite senza un adeguamento del costo del lavoro (che rappresentava l’80 per cento di quei costi).
La Cgil e non solo la Fiom non hanno avuto la forza né la voce per chiamare la Fiat al tavolo, come si diceva in gergo sindacale, perchél tavolo lo hanno fatto saltare, come fece la Cgil di Coffferati sulla riforma dello Statuto dei lavoratori, congelando, nella ibernazione del mito della lotta, qualsiasi possibilità di negoziato e di contropartite. In questo modo, grazie anche ai giornali e ai politici, a loro volta caduti nella trappola del mito, nella mente dei milioni di italiani, che hanno visto la vertenza come un fatto remoto, la crisi di competitività dell’industria, e non solo quella dell’auto è stata identificata con un problema di governabilità delle fabbriche, gestione della forza operaia, costo del lavoro.
Così è passato in secondo piano uno dei tanti paradossi italiani, che gli operai da noi guadagnano meno che in molti paesi concorrenti, appartenenti al mondo industriale avanzato, e se andiamo a vedere anche meno della Chrysler, eppure i nostri prodotti, non solo le auto ma anche altri che escono da fabbriche molto meno regolamentate, sono sempre meno competitivi. Certo il costo del lavoro è dato non solo dalla paga, ma dagli organici, dalle festività, dai riposi, dall’assenteismo. Però non possiamo dimenticare mai quanto incidano le tasse e i contributi, che sono fuori della disponibilità di imprese e sindacati ma su cui imprese e sindacati meno ideologizzati avrebbero forse potuto aprire un tavolo col Governo, lasciato invece indisturbato a pensare ai bunga bunga, alla “ricostruzione” abruzzese e al G8.
Lo psicodramma del referendum ha avuto un’altra conseguenza, quella di isolare la Fiom nel ruolo dei cattivi, mentre la Fiom ha avuto e ha il merito di dare una voce a uno stato d’animo diffuso tra i lavoratori e che ha costretto la stessa Fiom a recuperare alla sua sinistra per evitare conseguenze peggiori per tutti noi. Non dobbiamo mai dimenticare che i due paesi europei dove il terrorismo rosso ha avuto forza sono stati la Germania e l’Italia: in entrambi, c’era a sinistra un confine invalicabile, là il partito comunista era fuori legge, qui il Pci scomunicava ogni dissenso e così veniva a mancare la possibilità di incanalare la protesta, che c’è a prescindere dalla nostra volontà, verso uno sbocco politico.
La Fiom è stata lasciata sola e non da ieri, ma da quando cominciarono i fermenti provocati dalla vocazione internazionale della Fiat di Sergio Marchionne, che furono accettati a scatola chiusa, come un fatto ineluttabile, da un sindacato distratto e da una sinistra in pieno sbandamento post veltroniano, più preoccupata di fare la morale a Berlusconi, che di incalzarlo su problemi come il futuro industriale, più preoccupata di inseguire Berlusconi in Abruzzo per elemosinare qualche avanzo di consenso all’ombra delle macerie che di affrontare preventivamente i problemi della Fiat, contrattare sulle strategie, che non potevano non prevedere i traumi di Termini Imerese, di Melfi e di Pomigliano d’Arco e tutto il resto che è seguito.
Solo Massimo D’Alema, in quella occasione, dimostrò di capire, ma non andò oltre una dichiarazione. Forse troppo preso da tante altre cose, non risulta abbia mai esercitato la sua influenza sul suo partito e sul sindacato di riferimento, la Cgil, perché affrontassero il tema.
Ora si deve sempre ricordare che senza Marchionne la Fiat forse non ci sarebbe più, travolta dagli effetti del ventennio seguito alla estromissione di Vittorio Ghidella, a sua volta seguita alla prima grande vittoria aziendale sui sindacati, nella primavera del 1980: una crisi che però conferma che non di solo controllo della forza lavoro, condizione necessaria ma non sufficiente, vivono le aziende e che servono anche idee, progetti, creatività, uomini, soldi.
Ma si deve anche ricordare che, salvando la Fiat, Marchionne non ha conseguito lo stato di divinità, infallibile e indiscutibile. Sarebbe stato giusto, ma forse ormai è troppo tardi, chiamarlo a spiegare, a chiarire, a prendere impegni. Era interesse di tutti, della sinistra ma anche del sindacato, della destra ma anche del Governo. La Fiat non è marginale, non solo perché è rimasta l’unica grande industria italiana degna di quel nome, ma perché il suo peso nell’economia italiana è tale che non si può pensare di sostituirla tanto facilmente.
L’Inghilterra ha potuto rinunciare, con le sue miniere di carbone, all’industria dell’auto, inventando posti di lavoro inutili (che ora pensano però di tagliare) per cui le risorse sono state date da una trasformazione in centrale finanziaria. Ma l’inglese è la lingua franca del mondo e la deregulation che ha travolto la Gran Bretagna, unita allo sviluppo post unione europea ha fatto di Londra una Svizzera civile e simpatica, rifugio ideale per ricchi e arricchiti (più o meno lecitamente) di mezzo mondo.
L’Italia, isolata dal punto di vista linguistico, irretita nelle sue leggi e regolamenti, rischia solo l’isolamento e il declino.
Mentre eravamo tutti focalizzati sulla lotta di Mirafiori, nessuno o quasi (Mauro Coppini lo ha fatto, su Blitzquotidiano) ha pensato a chiedere a Marchionne cosa voglia fare fino in fondo della Fiat, tutti hanno tranquillamente e semplicemente accettato che la Fiat italiana diventi una succursale, che la Chrysler diventi la padrona, quella Chrysler finita già più di una volta nei guai e dove i tedeschi della Mercedes, che proprio gli ultimi non sono, hanno lasciato qualcosa di più di dieci miliardi di dollari. Nessuno chiede cosa ci sia sotto, quale sia il disegno finale, dove risiedano gli interessi individuali di proprietà e management.
Tutti hanno preso come ineluttabile il calo delle vendite Fiat e la perdita di quota di mercato, nessuno si è chiesto se dipendano dalla mancanza di modelli, di organizzazione della rete, semplicemente di teste pensanti.
Nessuno si domanda quanto su Marchionne influisca l’appagamento dell’io (che deve essere smisurato, a giudicare dalla assoluta mancanza di rispetto per gli altri che denuncia l’eterno maglione) e quanto le condizioni poste da Barack Obama, presidente all’epoca degli accordi e ancor oggi fortissimo, a fronte di un Silvio Berlusconi già allora fiaccato come un toro dai picadores dall’azione congiunta di Procure della Repubblica, legittima moglie e opposizione giornalistica. Quanto abbia influito un sindacato fortissimo, con un rilevante peso politico e elettorale, la Uaw (United auto workers) americana, contrapposto a un sindacato italiano distratto, esecutore e non ispiratore di azione politica.
Eppure c’è qualcosa nella azione di Marchionne che non torna. Non si può pensare che un uomo intelligente come lui identifichi nelle pause pranzo degli operai la causa della poca produttività italiana, ignorando l’arretratezza delle nostre banche, il groviglio della burocrazia e delle leggi, la ridicolaggine di un ministro delle Finanze che dichiara guerra all’art. 41 della Coostituzione, sapendo che non si andrà mai da nessuna parte però fa titolo sui giornali e piace alla parte più tartassata della Padania, invece di mettere assieme un po’ di esperti di diritto amministrativo (e tutti i partiti ne hanno di eccellenti) e riformare in concreto le regole più astruse e contraddittorie.
Qualcosa di più serio deve essere all’origine del divario di crescita del pil, da uno a tre, fra Italia e Germania, paese socialista quanto il nostro anzi di più e non basta a spiegarlo la dimensione del mercato domestico dopo l’annessione della ex Ddr.
Se è così, c’è poco da entusiasmarsi per la vittoria del sì a Mirafiori, inutile la lotta per gli irriducibili del no. Il destino della Fiat come primaria azienda italiana sembra segnato. Non resta che augurarci che Marchionne abbia più successo a Detroit che a Torino, e più successo di quei burocrati crucchi della Mercedes, nel risollevare l’azienda americana, in modo che gli ex stabilimenti Fiat e Alfa Romeo, guida e orgoglio della classe operaia, funzionino almeno a pieno ritmo, come le linee di imbottigliamento della Coca cola. Altrimenti la classe operaia sarà in paradiso, ma i suoi figli resteranno tutti all’inferno e un po’ di carbone incandescente brucerà anche tutti noi.