ROMA – La crisi occidentale sta rallentando la crescita in Cina. Se nel 2008 il colosso asiatico era uscito praticamente indenne, i dati attuali mostrano una sofferenza che preoccupa la leadership cinese, anche perché mancano 10 mesi al congresso del Partito Comunista. L’ultimo segnale non lascia dubbi: la produzione manifatturiera si è contratta, prima volta negli ultimi 33 mesi. L’indice delle piccole e medie imprese è sceso sotto lo spartiacque dei 50 punti: sopra i 50 significa espansione, sotto riduzione. A novembre la lancetta si è fermata a 49. A essere colpito è principalmente l’export cinese: europei e americani comprano di meno.
Per questo la banca centrale cinese ha immesso più liquidità nel mercato, abbassando di mezzo punto la quota di riserve obbligatorie per gli istituti di credito. Una mossa chiaramente espansiva, dopo tre anni di guardia stretta all’inflazione, ora sotto il 6%. Il rallentamento del Pil, però, è diventato una tendenza consolidata: l’anno scorso era al 10,4%, nel primo trimestre di quest’anno al 9,7%, 9,5% nel secondo e al 9,1% nel terzo. L’8% è la soglia psicologica oltre la quale il mercato del lavoro subirebbe un contraccolpo dagli esiti imprevedibili.Già ora il costo della manodopera sta crescendo inesorabilmente: per attrarre forza lavoro a Shenzhen i salari sono stati aumentati del 15%, dopo che ad aprile erano stati già incrementati del 20.
Con questi chiari di luna sfumano le ipotesi di collaborazione fra governo cinese e partner europei: un vertice a Tianjin è stato rinviato senza che sia stata decisa una data alternativa. Di sostegno ai debiti sovrani in sofferenza non se ne parla più, se mai ha avuto qualche possibilità di essere percorso dai cinesi. Ora più che mai concentrati sulla propria economia.
