Evasione fiscale alle stelle, un numero esorbitante di dipendenti pubblici pagati troppo, una corruzione dilagante e un sistema economico ancorato a rassicuranti quanto inattuali modelli protezionistici. La crisi economica che sta mettendo in ginocchio la Grecia non nasce dal nulla ma da una serie di caratteristiche strutturali dell’economia ellenica che, in parte, si ritrovano anche nel nostro Paese.
La classe dirigente, davanti al concreto rischio di default, ha capito che l’economia va radicalmente riformata e per ora il premier George Papandreou può ancora farsi forte di un certo consenso popolare. L’incognita, però, è capire se e quanto durerà. Di fronte alle riforme annunciate dall’esecutivo i greci sono scesi in massa nelle strade, hanno bloccato strade, porti, scuole e ospedali e la tensione sociale è salita alle stelle. Eppure il governo di Atene per ora tiene il punto e la parola d’ordine, pronunciata dal ministro dell’Istruzione John Panaretos è “riformare il settore pubblico”. Perchè la crisi si annida proprio nelle spese insostenibili che il Paese ha sostenuto per la pubblica amministrazione.
Solo negli ultimi cinque anni, per fare un esempio, sono stati assunti 150.000 dipendenti pubblici con l’unico criterio del clientelismo. Il paradigma è quello di Aghios Stratis, un isoletta del mare Egeo con 100 abitanti. Sull’isola c’è una scuola elementare e media. Gli alunni sono in tutto dieci, i professori 45, di cui un terzo “insegnano” educazione fisica. Ma appena si parla di riforma della scuola il Paese viene paralizzato dagli scioperi.
Anche la Sanità se la passa male. I conti parlano di un buco di 5 miliardi di euro da sanare in tempi rapidi ed è un’impresa epocale in un Paese che, ad oggi, non prevede neppure che gli ospedali tengano un registro di contabilità. Il risultato della gestione sanitaria è drammatico: non c’è solo la voragine nei conti, ci sono anche strutture obsolete e costi alti delle prestazioni mediche. Per uno stent coronarico, grazie al ricorso sistematico alle “mazzette” ad Atene si spende cinque volte quello che si spende a Berlino. In un quadro simile ora arrivano i tagli che pagherà la collettività.
Ma, al di là delle singole voci, è proprio il sistema della spesa pubblica a fare acqua da tutte le parti. Takis Michas, autore di una ricerca sulla crisi greca per il Cato Institute, parla di una strategia sistematica di “putting politics above market”, ovvero di logiche clientelari che hanno schiacciato quelle di mercato. Scrive Michas che oltre l’80% della spesa statale va in salari e pensioni di dipendenti del settore pubblico. E oltre il 70% dei greci deriva almeno una fetta del reddito da qualche tipo di imposta. Con punte surreali: il 10% del prezzo dei traghetti è destinato al fondo pensione dei portuali. Mentre i fornitori dell’esercito pagano il 4% alla previdenza degli ufficiali. E chiunque desideri aprire un’azienda deve prima assoggettarsi a un’imposta pari all’1% del capitale iniziale, versata al fondo degli avvocati.
In questo sistema “drogato” si innestano anche l’evasione fiscale e la corruzione. Con una riforma fiscale il governo di Atene ha innalzato dal 25 al 38% l’aliquota sui redditi. Il problema è che prima che alzarle, le tasse bisognerebbe farle pagare e la cosa è tutt’altro che scontata in un Paese dove solo 15.000 persone su 15 milioni dichiarano un reddito superiore ai 100.000 euro. Poi ci sono le bustarelle. Il criminologo Stravos Katsios racconta di un Paese in cui “stare alle regole è quasi un disonore” e il risultato è che le Fakilaki, come chiamano le “mazzette” i greci, si mangiano l’8% del Pil. Una cifra che la Grecia non si può più permettere e l’economia sommersa pesa per il 25,1% del Pil secondo quanto stimato dall’università di Heidelberg.
Dulcis in fundo c’è da fare i conti con chi, nonostante il precipizio sia ad un passo, di cambiare il sistema non vuol saperne. Sono i “duri e puri” delle lotte, come quei portuali che bloccano i porti per protestare contro il programma di liberalizzazioni avviato da Papandreou. Succede che da questa estate, per la prima volta, nell’Egeo potranno attraccare anche traghetti stranieri, una misura che dovrebbe portare nelle casse greche fino ad 800 milioni di euro. Ma i portuali non ci stanno e temono, forse a ragione, ricadute in termini di occupazione in un settore che occupa oltre 20000 persone. Protestano persino i militari contro i tagli di stipendi e di budget alle forze armate: ognuno, insomma, si ostina a suonare il suo strumento mentre il Titanic affonda. Di sicuro c’è che la disoccupazione ha sfondato la soglia dell’11% e per un Paese abituato persino più dell’Italia a inseguire il confortante mito del posto fisso nella pubblica amministrazione. A breve, poi, Atene dovrà approvare una rigida riforma delle pensioni e difficilmente i greci la accetteranno passivamente senza protestare.
Nel crudo linguaggio dell’economia la crisi greca ha un nome: disavanzo primario. Due parole che mettono in ginocchio il Paese ellenico perché significano che anche se la Grecia avesse debito pubblico pari a zero con l’attuale sistema finirebbe per indebitarsi rapidamente visto che spende molto più di quanto incassa. Intanto la Standard & Poor’s ha declassato il rating della Grecia riducendolo a livello di “junk”, ovvero spazzatura. In parole povere significa che il rischio di default è alto e che i titoli greci sono carta straccia. Se possibile c’è anche di peggio: il Paese deve rimborsare 9 miliardi di euro in obbligazioni entro il 19 maggio e come ha detto il premier “le condizioni offerte dai mercati dal mercato sono proibitive”. Dunque servono urgentemente soldi europei. Sperando che, stavolta, i greci sappiano farne buon uso.