Per quel che possono valere stime del genere, Expo Luxe, che promuove il Salone del Lusso di Roma (a metà settembre), ha calcolato che gli italiani con un patrimonio finanziario netto superiore ai 500 mila euro siano 703 mila (salgono a 1,6 milioni se si considera anche il valore della casa di proprietà), mentre i “super-ricchi” (oltre un milione di euro) sono 250 mila e gli “ultra-ricchi” (oltre dieci milioni) circa 14 mila. Sarebbero questi concittadini a sostenere il nostro mercato interno del lusso. Però chi, metaforicamente armato di forconi e randelli, scendesse in piazza per invocare più tasse, specie patrimoniali, per gli Hnwi (High Net Worth Individual) che si permettono consumi e costumi sardanapaleschi, sarebbe meglio si fermasse un momento a riflettere. Innanzitutto sul fatto che dietro al fatturato di questo comparto c’è parecchia occupazione e spesso qualificata. Poi sul fatto che colpire maggiormente i redditi e i patrimoni elevati che vengono “dichiarati” provocherebbe solo effetti negativi: infatti se esiste una domanda interna per beni di lusso che appare “eticamente” in conflitto con una situazione di crisi e anche di povertà in crescita (testimoniata dall’aumento dell’indice italiano di disuguaglianza), essa dipende prevalentemente dai redditi e patrimoni nascosti al fisco e aumentare la tassazione servirebbe a poco.
Infine giova ricordare che in realtà il “merito” dei buoni risultati delle nostrane aziende del lusso non è né tutto né soprattutto degli italiani con il portafoglio gonfio ma anche di prodotti che fanno gola a tutto il mondo. Il vero problema è adeguare i beni e le dimensioni aziendali (ancora troppo familiari) al cambiamento della domanda e a un mercato internazionale in profondo mutamento. Altrimenti si perde il treno. Come hanno spiegato gli autori della ricerca Bain & Co. per la Fondazione Altagamma, l’acquirente tipo dei beni di lusso è sempre meno un maturo signore americano dai capelli grigi e sempre più un cinese più giovane di vent’anni (la Cina si appresta a divenire il terzo mercato per questi beni). Le multinazionali italiane del settore debbono quindi essere in grado di cambiare le ubicazioni delle catene distributive, prepararsi a soddisfare gusti notevolmente diversi dal passato, spesso passare da prodotti ad alto contenuto di artigianato a prodotti altamente tecnologici.