ROMA – Sono ancora moltissimi coloro che “vedono nero”: i dati macro ci dicono che la crisi si sta assai lentamente allontanando ma i più faticano ancora ad accorgersene o hanno una personale esperienza che dice proprio il contrario (disoccupati, cassintegrati, precari, molti professionisti e commercianti, imprese piccole e grandi alle prese con il credit crunch, e via elencando). Ma a fronte di una stragrande maggioranza per la quale il nero è tutt’ora il colore di stagione, c’è una minoranza in crescita che invece “vede giallo”. Giallo-oro, per l’esattezza. Si stanno insomma moltiplicando anche in Italia i segnali di ripresa, consistente, per il segmento del lusso (inteso come produttori di beni “riservati” ai più abbienti). Parallelamente altri indicatori ci informano che i ricchi della penisola stanno aumentando e soprattutto stanno diventando sempre più ricchi (in rapporto alla fascia più povera della popolazione). Fenomeno, questo secondo, che in buona parte parte spiega il primo e in piccola parte spiega anche perché la benedetta ripresa fatichi a generalizzarsi.
Una manciata di giorni fa il Monitor Altagamma sul mercato mondiale del lusso ci ha sorpreso annunciandoci che il fatturato del segmento dei beni per nababbi aveva raggiunto, nel 2010, i 172 miliardi di euro, vale a dire il 12 per cento in più rispetto all’anno precedente. In altre parole, per gli “status symbol” (alta moda, gioielli, supercar, vacanze esotiche a sette stelle) il 2010 aveva rappresentato un anno di vacche grasse quando ancora la recovery complessiva delle economie procedeva a tentoni. Tanto grasse, le vacche, che nell’anno passato il giro d’affari del lusso ha addirittura superato quello pre-crisi del 2007 (170 miliardi) e entro il 2025 si stima che potrebbe quadruplicare quello ottenuto nel 1995 (100 miliardi). La tendenza positiva, inoltre, secondo gli esperti dovrebbe consolidarsi quest’anno con un altro otto per cento in più. Si conferma anche un fenomeno già osservato in altri periodi di congiuntura negativa: il mondo dei prodotti di alta gamma è l’ultimo a risentire delle recessioni e il primo a uscirne.
In questo roseo quadro complessivo il bel paese è il terzo mercato mondiale del lusso e il primo in Europa, con un fatturato di 16,6 miliardi di euro (la Francia è a 12,6 miliardi) e una crescita nel 2010 del sette per cento. La buona performance delle aziende italiane del settore si sta riflettendo anche sulle loro quotazioni di Borsa. Nel primo quadrimestre di quest’anno le imprese del lusso hanno conseguito a Piazza Affari risultati nettamente superiori alla modesta crescita dell’indice medio. Tanto per fare qualche esempio, Tod’s ha fatto registrare un più 20,8 per cento mentre Bulgari addirittura un più 61,3 (trainato dall’acquisizione da parte del gruppo francese Lvmh). Inoltre diverse imprese stanno considerando o rispolverando progetti di quotazione (Prada e Ferragamo in primis).
Per quel che possono valere stime del genere, Expo Luxe, che promuove il Salone del Lusso di Roma (a metà settembre), ha calcolato che gli italiani con un patrimonio finanziario netto superiore ai 500 mila euro siano 703 mila (salgono a 1,6 milioni se si considera anche il valore della casa di proprietà), mentre i “super-ricchi” (oltre un milione di euro) sono 250 mila e gli “ultra-ricchi” (oltre dieci milioni) circa 14 mila. Sarebbero questi concittadini a sostenere il nostro mercato interno del lusso. Però chi, metaforicamente armato di forconi e randelli, scendesse in piazza per invocare più tasse, specie patrimoniali, per gli Hnwi (High Net Worth Individual) che si permettono consumi e costumi sardanapaleschi, sarebbe meglio si fermasse un momento a riflettere. Innanzitutto sul fatto che dietro al fatturato di questo comparto c’è parecchia occupazione e spesso qualificata. Poi sul fatto che colpire maggiormente i redditi e i patrimoni elevati che vengono “dichiarati” provocherebbe solo effetti negativi: infatti se esiste una domanda interna per beni di lusso che appare “eticamente” in conflitto con una situazione di crisi e anche di povertà in crescita (testimoniata dall’aumento dell’indice italiano di disuguaglianza), essa dipende prevalentemente dai redditi e patrimoni nascosti al fisco e aumentare la tassazione servirebbe a poco.
Infine giova ricordare che in realtà il “merito” dei buoni risultati delle nostrane aziende del lusso non è né tutto né soprattutto degli italiani con il portafoglio gonfio ma anche di prodotti che fanno gola a tutto il mondo. Il vero problema è adeguare i beni e le dimensioni aziendali (ancora troppo familiari) al cambiamento della domanda e a un mercato internazionale in profondo mutamento. Altrimenti si perde il treno. Come hanno spiegato gli autori della ricerca Bain & Co. per la Fondazione Altagamma, l’acquirente tipo dei beni di lusso è sempre meno un maturo signore americano dai capelli grigi e sempre più un cinese più giovane di vent’anni (la Cina si appresta a divenire il terzo mercato per questi beni). Le multinazionali italiane del settore debbono quindi essere in grado di cambiare le ubicazioni delle catene distributive, prepararsi a soddisfare gusti notevolmente diversi dal passato, spesso passare da prodotti ad alto contenuto di artigianato a prodotti altamente tecnologici.