Con una interpellanza al Governo, Borghesi, Donadi, Mura, Messina, Barbato, deputati dell’Idv, hanno chiesto “Informazioni circa l’incidenza degli strumenti finanziari derivati nell’ambito della complessiva esposizione debitoria dello Stato italiano”.
L’interpellanza dei cinque deputati Idv prende spunto da “un interessante articolo, pubblicato il 4 febbraio 2012 sull’International Financing Review, che getta luce su un importante aspetto della composizione del debito pubblico del nostro Paese e, quindi, sulla sua sostenibilità”.
Il punto interrogativo è: quanti derivati possiede il Ministero dell’economia e delle finanze italiano nel suo portafoglio?
I cinque deputati ricordano che mesi fa il Wall Street Journal (e prima ancora, lo aveva scritto Blitzquotidiano citando un articolo di Gustavo Piga su una rivista economica americana) ha “sostenuto che, a partire dal 1996, l’Italia avrebbe «truccato» i propri conti utilizzando derivati grazie all’aiuto di [banche come] JP Morgan” e Goldman Sachs” e ricordano anche le bocche rigorosamente chiuse su questo argomento da parte di “tutti i Governi succedutisi nel tempo”.
Aggiunge l’interpellanza che “i dati Eurostat rivelano che il Ministero dell’economia e delle finanze italiano ha utilizzato massicciamente i derivati, in particolare dal 1998 al 2008, utilizzando cross currency swap e interest rate swap, ma anche cartolarizzazioni. Ciò che si sa dai dati Eurostat è che l’Italia ha guadagnato su questi strumenti almeno fino al 2006, anno in cui la tendenza ha iniziato ad invertirsi e le perdite hanno iniziato a materializzarsi. Per gli anni successivi non esistono dati accertati, a causa dell’assenza di informazioni provenienti da fonti ufficiali”.
Ancora: “La maggior parte delle stime sostiene che i derivati del Ministero dell’economia e delle finanze abbiano un valore di circa 30 miliardi di euro, e molti banchieri sostengono che l’Italia sia il più grande utilizzatore sovrano di strumenti derivati. Ciò non sarebbe un problema in sé, se non fosse che l’opacità informativa rischia di alimentare dubbi circa la sostenibilità di questo stock di contratti, in particolare in un momento in cui nessun Paese è bersagliato come l’Italia, con 29 miliardi di dollari di scommesse contrarie su oltre 7500 contratti di solidarietà”;
La questione, notano i cinque deputati, “è tutt’altro che irrilevante: l’articolo di Ifre prende l’esempio di Morgan Stanley, che ha recentemente ridotto la sua esposizione in swap verso l’Italia di circa 3,4 miliardi di dollari. Se questo interest rate swap fosse stato ristrutturato e assegnato a un’altra banca, allora l’Italia non sarebbe stata particolarmente toccata dalla vicenda. Ma se lo swap fosse stato chiuso, allora l’Italia avrebbe dovuto pagare almeno 2 miliardi di euro”.
Conclude l’interpellanza: “L’European Bank Authority riporta che l’Italia è esposta per 5,1 miliardi di euro in swap verso le banche europee e ciò non include quelle statunitensi, quelle svizzere né quelle inglesi. Se gli investitori decidessero di chiudere queste posizioni, che sono peraltro più costose con il nuovo regime regolatorio, l’Italia si troverebbe d’improvviso a dover pagare svariati miliardi di euro”.
Più che giustificata la domanda conclusiva: quale è “la reale esposizione italiana al rischio” e come può “incidere sulla tenuta dei conti pubblici italiani”.
Una risposta è stata data dal sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria.
