In due articoli pubblicati il 24 aprile, Claudio Gatti ha affrontato il nodo tecnico dei derivati. Ci si chiede se non si siano corsi rischi irragionevoli, se siano state sbagliate le previsioni, se la sottoscrizione di strumenti di copertura dai rischi siano stati in qualche modo estorta da Wall Street, altrimenti resta difficilmente spiegabile l’esborso di 3,1 miliardi con il quale, nel gennaio del 2012, il Tesoro ha saldato i suoi derivati con Morgan Stanley. Mistero che nemmeno il responsabile del Tesoro, il direttore del Debito Pubblico Maria Cannata è riuscita veramente a sciogliere.
Dall’inchiesta de Il Sole 24 Ore emerge che però il Tesoro si è lanciato anche in scommesse finanziarie che non offrivano copertura né sembrano essere state giudiziose. Ci riferiamo in particolare alla vendita di tre swaption – ovvero opzioni a entrare in swap – che nel gennaio 2012 sono state saldate a Morgan Stanley al costo di circa 2,5 miliardi. Grazie anche al maggiore impegno di trasparenza da parte dell’attuale Mef, abbiamo appurato che come quelle ce ne sono molte altre ancora aperte. Che a oggi risultano avere un valore negativo di 8,8 miliardi. Così come ci sono altri swap fatti al fine di allungare la durata del debito (come gli altri derivati con Morgan Stanley costati i restanti 900 milioni) che hanno oggi un mark-to-market negativo così alto – 33 miliardi – da far pensare che alcuni abbiano profili di rischio del tutto anomali.
Secondo il Tesoro il calo dei tassi anormalmente basso è attribuibile alla crisi finanziaria e non era prevedibile. Tuttavia, non è in discussione lo strumento (e anche se previsioni diverse non erano impraticabili), ma il costo dell’operazione. Gatti spiega il meccanismo contabile che può aver funzionato da incentivo.
Fino all’ottobre scorso per i derivati le regole prevedevano che venissero portati a bilancio gli introiti – i cosiddetti upfront – ma non le passività o i mark-to-market acquisiti, che a bilancio sarebbero andati solo al momento dell’esborso. Il Mef ce lo ha confermato: «Il bilancio è fatto per cassa, quindi non avrebbe alcun senso esporre il mark-to-market, cioè un esborso squisitamente teorico che non si verifica nell’anno di cui il bilancio offre un resoconto. Ovviamente vengono invece indicati nel bilancio i flussi finanziari effettivi generati dall’esercizio dei contratti nel corso dell’anno».
Anche i banchieri avevano il loro ritorno: perché a differenza di quello che fa lo Stato, le banche portano a bilancio i crediti acquisiti con il mark-to-market. Che poi influiscono sui bonus di fine anno. Insomma era una situazione che in inglese si definirebbe win-win, in cui entrambi avevano un ritorno – immediato per lo Stato, spalmato nel tempo per le controparti private. Nel caso delle tre swaption vendute a Morgan Stanley, i dati portano a concludere che il Tesoro abbia in effetti pensato a ottenere benefici immediati rinviando l’eventuale saldo a un lontanissimo futuro.
Il Sole 24 Ore è infatti riuscito a ottenere in esclusiva informazioni mai prima rese pubbliche appurando che le date di scadenza finale dei derivati accessi con le tre swaption erano il 1 settembre 2035, il 1 agosto 2048 e addirittura il 4 agosto 2058, quindi fino a ben oltre mezzo secolo dopo la firma del contratto originale. Come se Matteo Renzi si dovesse trovare oggi a dover saldare il conto di mutui stipulati nel 1956 dal governo di Antonio Segni!
[…] Quando abbiamo domandato quali potenziali benefici abbiano spinto il Mef a vendere quelle swaption a Morgan Stanley, ci è stato risposto che «le swaption sono state utilizzate per compensare forti oscillazioni nei tassi e gli introiti dovuti alla cessione di diritti hanno consentito di ridurre gli oneri complessivi del servizio del debito in periodi di tassi elevati».
Ma a detta degli esperti da noi consultati, la prima giustificazione non regge: per compensare le oscillazioni dei tassi avrebbe avuto molto più senso aprire direttamente uno swap. Quindi l’unico possibile beneficio era il premio. E allora sorge la classica domanda: il gioco valeva la candela? A parte la contraddizione con la mission dichiarata di copertura e stabilizzazione, il fatto che più desta perplessità è che, secondo i calcoli di un esperto consultato dal nostro giornale, si siano assunti rischi costati 2,5 miliardi per incassare 200 milioni in premi. (Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore).