Emanuele Cipriani, 49 anni, è l’uomo dei dossier Telecom o, come più gli piace definirsi, «un imprenditore della sicurezza privata». Oggi è il solo imputato eccellente di questa storia (lo scandalo dello spionaggio Telecom nell’èra Tronchetti Provera) ad avere ancora interesse a non far cadere il velo su una scena dove, nonostante le omissioni del lavoro istruttorio, affiorano dossier illegali; figure che decidono della cosa pubblica senza alcuna responsabilità istituzionale; comportamenti obliqui di governanti; ricatti; corruzione piccola e grande; debolezze della magistratura, dell’informazione, delle amministrazioni dello Stato e, al centro, una sorda lotta per il potere che non si fa mai trasparente.
Il processo Telecom non fa onore alla magistratura milanese. L’udienza preliminare in corso da sei mesi vede il fuggi fuggi degli imputati. Il cinquanta per cento ha patteggiato. Quelli che restano si affidano al colpo di spugna della prescrizione.
Emanuele Cipriani, al contrario, ha un diavolo per capello. Non per la minaccia di una condanna penale, che forse non ci sarà, ma per il blocco dei suoi beni, per di più minacciati dalla rivalsa di Telecom e Pirelli, costituite parte civile contro di lui. Ai suoi occhi, la beffa dopo il danno.
Dice Cipriani: «Non voglio essere e non sarò il capro espiatorio di questa storia. Quei soldi sono il frutto del mio lavoro».
La ricostruzione della storia potrebbe essere la seguente. Tre amici d’infanzia (Tavaroli, Mancini, Cipriani) fanno carriera partendo dal fondo della scala. Conquistano la potente e ricca security della Telecom (Giuliano Tavaroli), il controspionaggio militare (Marco Mancini), un’importante posizione nell’intelligence privata (Emanuele Cipriani). Incrociano le informazioni in loro possesso. Formano dossier spionistici in libertà con le risorse della tlc e dello Stato. Lucrano profitti e potere personali.
«È un quadro falso – spiega Cipriani su Repubblica – Non è vero che Tronchetti non sapesse chi fossi io. Ne era consapevole. Egli ha chiesto e ottenuto informazioni sul suo personale di servizio, dai domestici alla guardarobiera della signora Afef. Molte di queste pratiche non erano illegali, non erano aggressive e sono state pagate da Telecom e da Pirelli. Mi sono occupato personalmente della tutela della signora Afef; delle vacanze in barca del dottore in giro per il mondo; della sicurezza della sua barca a Saint Tropez; del matrimonio della figlia Giada a Portofino dove c’era tutta l’Italia che conta. E sono sorpreso che Tronchetti oggi dica di non saperne nulla. Ai magistrati ho raccontato di svariate pratiche aperte a suo esclusivo beneficio. E questo, naturalmente, è soltanto l’aspetto diciamo privato, svolto nell’interesse del Dottore. Per la maggior parte, il mio lavoro si è sviluppato nell’interesse delle società a verifica delle condizioni dei business a rischio».
Le parole di Emanuele Cipriani dimostrano che l’affaire Telecom, miniaturizzato fino alla caricatura dall’inchiesta della procura di Milano, ha ancora molto liquido velenoso. La sottile speranza (allo stato dell’arte, ingiustificata) è che l’udienza preliminare in corso a Milano sappia fare luce su quel groviglio che i pubblici ministeri non hanno voluto o potuto illuminare.
Le dichiarazioni di Emanuele Cipriani lo rendono doveroso. Soprattutto ora che ritornano in auge protagonisti di quel recente, buio passato come Niccolò Pollari, candidato a diventare presto Consigliere per la Sicurezza del capo del governo.