ROMA – Non è andato in porto il piano di fusione Terna-Snam Rete Gas. Doveva rappresentare il maxi-polo italiano delle reti energetiche, un colosso da 22 miliardi di capitalizzazione con il compito di razionalizzare il sistema di distribuzione dell’energia e di resistere all’appetito delle compagnie straniere. Il progetto di fusione era a buon punto, è saltato in dirittura d’arrivo, o meglio, congelato per 12 mesi, forse 18. Scelte di natura manageriale, ma soprattutto di matrice politica alla base dello stop. Dopo che Terna da un lato e Snam Rete Gas dall’altro si sono applicate per studiare singolarmente soluzioni che valorizzassero le due aziende, anche per evitare di subire iniziative di terzi, l’intero dossier è stato momentaneamente accantonato.
Terna, la società di trasmissione elettrica guidata da Flavio Cattaneo controllata al 36% dal Governo, attraverso Cassa Depositi e Prestiti e il ministero dell’Economia e delle Finanze, aveva studiato il progetto di un’aggregazione con la Snam, con la prima, però, pronta a presentarsi all’appuntamento solo a valle di un rafforzamento patrimoniale. Terna avrebbe dovuto mangiare Snam: il fatto però, lo dice la Borsa, è che Snam è più grande di Terna, almeno del doppio, 15 miliardi contro 7. Di qui l’idea di uno snellimento del perimetro di Snam, magari con la cessione di Italgas, e del contemporaneo rafforzamento di Terna attraverso un aumento di capitale. Aumento di capitale che Giulio Tremonti non se l’è sentita di approvare per il momento. Se ne riparlerà in circostanze più favorevoli: ora non ci sono i soldi e le condizioni per benedire questo matrimonio.
L’ipotesi alternativa, ma sempre indirizzata alla fusione, era quella targata Snam. Il piano avrebbe fatto parecchia strada arrivando, come quello di Terna, addirittura sulla scrivania del presidente della Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini, e avrebbe come obiettivo finale quello di rendere Snam un campione europeo nel trasporto del gas. Un target che il piano intendeva perseguire a fronte dell’intervento diretto nel capitale della società della Cdp, con una conseguente diluizione dell’Eni, oggi azionista di controllo con il 50%. L’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni, presentando il piano industriale a Londra, aveva a sorpresa ventilato l’ipotesi di una cessione di parte delle quote Snam. Lo ha fatto dopo aver incassato dalla Ue e dal governo l’ok a una separazione esclusivamente funzionale della Snam (secondo il modello Ito, ossia independent transmission operator), scansando così il rischio vendita coatta, e precisando, in aggiunta, che le condizioni per poter prendere in considerazione una simile eventualità erano tre: “L’individuazione di un compratore, un prezzo con un premio che tenga conto delle peculiarità della società, e l’assenso del Governo”. Il che, tradotto, può significare una sola cosa: l’acquirente deve vantare un profilo di alto, anzi altissimo gradimento. Caratteristiche che di certo appartengono alla Cdp. Insomma il progetto di una super Snam interessava eccome anche Scaroni, ma il quadro normativo europeo non ancora sufficientemente chiaro suggerisce di attendere.
Così il colosso immaginato, quello da 22 miliardi è finito nel congelatore, vuoi perché non ci sono soldi che Tremonti possa allegramente mettere sul piatto, vuoi perché per un riassetto delle reti manca ancora una valutazione certa, soprattutto dal punto di vista delle regole. E quando si parla di reti ci riferiamo anche al settore delle telecomunicazioni. Telecom per intenderci e il piane, già abortito, di di una maxi rete nazionale che porti la fibra ottica nelle case degli italiani.
