ROMA – Fare subito una riforma fiscale che non si limiti a semplificare ma che riduca le aliquote, ovvero abbassi le tasse. Poi, a giugno, fare quello che ci chiede con insistenza l’Europa: una manovra da almeno 40 miliardi di euro con risorse tutte da inventare e tagli tutti da scoprire. Qualcosa, evidentemente, non torna: al tavolo del governo c’è qualcuno che bluffa. L’indiziato numero uno è il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che promette di alleggerire il peso del fisco ininterrottamente da 17 anni. Lo fa prima di ogni vittoria e dopo ogni sconfitta. Lo dice e fino a oggi non l’ha fatto. Lo ripete ostinato e convinto oggi che dovrebbe sapere che non si può fare.
I fatti dicono che Berlusconi, incassata la sconfitta elettorale, reagisce gridando ai quattro venti che con Umberto Bossi va d’amore e d’accordo e annunciando una grande riforma delle tasse. I cronisti che lo ascoltano corrono subito col pensiero a Giulio Tremonti, il ministro del rigore, dei conti a posto a tutti i costi e dalla borsa ben chiusa. Berlusconi, però, è netto: “Tremonti propone, non è che decide”. Passano pochi minuti e Berlusconi, forse consigliato, innesta la (parziale) retromarcia: ”Vengo avvertito di tentativi di polemica su una mia risposta del tutto ovvia ad una domanda dei giornalisti. Riconfermo piena fiducia nel Ministro Tremonti e sono sicuro che continueremo a lavorare bene insieme come abbiamo fatto sino ad adesso”.
Come potranno lavorare insieme, viste le premesse, sembra difficile a dirsi. Da un lato c’è un presidente del Consiglio che dopo una sconfitta che potrebbe essere l’inizio di un’agonia politica promette qualcosa che è contrario ad ogni elementare legge economica. Il Berlusconi post amministrative, infatti, non vuole solo abbassare le tasse. Vuole farlo senza tagli alla spesa pubblica: “Non faremo comunque come fanno in altri Paesi” dove, per ridurre la pressione fiscale “toccano le pensioni e il pubblico impiego”. E’ il vecchio adagio della botte piena e della moglie ubriaca o, per parafrasare i manifesti delle prime campagne elettorali del premier, la riproposizione a distanza di quindici anni del “più tutto per tutti”. Peccato che sia un inganno. E non perché Berlusconi sia cattivo: semplicemente, la ricetta proposta da Berlusconi è impossibile, a meno di considerare l’eventualità del default e dell’uscita dall’Unione Europea come scenari praticabili. Dall’altro c’è un ministro dell’Economia che, fino ad oggi, ha sempre scelto il rigore anche a svantaggio della crescita. Un ministro che garantisce certi equilibri e che, con Berlusconi accantonato, potrebbe puntare a qualcosa di più che a un semplice ministero.
La domanda, però, è un’altra: Berlusconi mente sapendo di mentire per una qualche strategia politica consapevole, oppure, trascinato a fondo dall’inizio della fine ha oramai inconsapevolmente cominciato a mentire anche a sé stesso? Il presidente del Consiglio sembra vittima di una sorta di ossessione da consenso perduto che lo porta a trascurare le più elementari regole dell’economia e a promettere ciò che è impossibile da mantenere. Le elezioni amministrative di Milano, però, hanno mostrato un dato nuovo: gli elettori iniziano a dubitare dei bluff. Non hanno votato Letizia Moratti a Milano nonostante le promesse su Ecopass e multe, non hanno votato Gianni Lettieri nonostante le promesse sulle case abusive.
Eppure Berlusconi non torna indietro, ha imboccato la strada delle promesse, con apparente noncuranza di quello che gli accade intorno. Perde le elezioni, i suoi avversari mugugnano, chiedono riflessioni e Berlusconi si limita a dire “zero problemi, si va avanti”. Solo due settimane prima, a proposito delle amministrative aveva parlato di test politico fondamentale. Poi arrivano dati economici preoccupanti, la necessità di una manovra da 40 miliardi e Berlusconi fa semplicemente finta che non esista. Promette meno tasse e lascia a Tremonti il compito di fare il “lavoro sporco”, quello di semplice rapporto con la realtà dei fatti e del bilancio. Anche il “gelo”, il “clima da far west” e la “resa dei conti” tra Berlusconi e Tremonti di cui tanti giornali scrivono sembra essere un piccolo bluff. La realtà è che Berlusconi sta lì per metterci la faccia e portare i voti e Tremonti sta lì per far quadrare i conti e inventarsi le risorse per provare a “regalare” una piccola parte di quanto promesso. Il presunto “gelo” fa parte di un gioco delle parti. Almeno per ora.
Poi Berlusconi sale al Quirinale e parla con il presidente della Repubblica allo stesso modo con cui spesso si rivolge ai suoi elettori, per metafore calcistiche: “Abbiamo subito un gol (le ultime elezioni, ndr), ma siamo ancora avanti quattro a uno perché avevamo vinto le politiche, le regionali, le europee e le amministrative. E abbiamo ancora due anni di governo”. Peccato che il calcio e la politica hanno una cosa in comune, l’assenza di memoria: il risultato su cui si fanno analisi, commenti e valutazioni è sempre l’ultimo. E il risultato delle amministrative dice che la strategia delle promesse a oltranza funziona, nonostante qualche mal di stomaco, con il manipolo di “Responsabili” e non con gli elettori.
La parabola dell’ultimo Berlusconi ha un che di tragico proprio nel suo labile rapporto con la realtà dei fatti. Il governo si sgretola ma “ci sono zero problemi”, servono 40 milioni ma si abbassano le tasse. E mentre Berlusconi promette, Mario Draghi nel giorno del passaggio da Bankitalia alla Bce, racconta una storia completamente diversa. Spiega che l’Italia, con la crisi (la stessa di cui si dice che ci ha solo sfiorato, che è finita e che ne siamo usciti bene), ha perso sette punti di pil e ne ha recuperati solo due. Quindi spiega che per stare entro i parametri europei serve una manovra da 40 miliardi entro il 2013. Quindi attacca il suo “nemico preferito”, Giulio Tremonti e la strategia dei “tagli lineari”. Detto in modo semplice significa che il ministro dell’Economia, fino a oggi, per risparmiare ha tagliato semplicemente una percentuale di spesa. Sistema sulla carta comodo perché evita l’onere della valutazione voce per voce dei capitoli di spesa. Per Draghi, però, questo è un sistema che alla lunga rischia di costare 30 miliardi, più o meno due punti di pil.
Che Draghi abbia ragione o torto rimane il dato di un’altra spina nel fianco del Governo, motivo forse non estraneo alla sua candidatura in Bce. Uno così, devono aver pensato Berlusconi e Tremonti, meglio averlo “fora dai ball”. Lo hanno considerato un “problema” da accantonare per affrontare quelli “reali” come, ad esempio, la “dittatura dei giudici di sinistra”. La scena è di pochi giorni fa: stanno per iniziare i lavori al G20 e Berlusconi, in barba al protocollo, si alza e raggiunge Barack Obama. Gli deve parlare di una questione pressante, il più grande problema italiano, le toghe rosse. Ricorda un po’ la scena del film “Johnny Stecchino” in cui il mafioso spiega a Roberto Benigni che il più grande problema di Palermo è il traffico. Attenzione, però, a dare Berlusconi per finito: anche a terra è capace di un colpo di coda. Dal milione di posti di lavoro all’abolizione dell’Ici passando per il bollo auto, il presidente del Consiglio ha sempre tirato fuori il coniglio dal cilindro.