“Poi ci fu la reazione, una legislazione d’emergenza, ma non ci fu nazionalizzazione delle banche: dopo la loro bancarotta ne furono create di nuove, con sistemi di pagamento domestici. Lo Stato ha finanziato le nuove banche: creditori e azionisti delle vecchie banche hanno perso tutto. A chi deteneva un deposito è stata data priorità rispetto ai possessori di bond delle banche. Poi, tutti gli asset nazionali sono stati trasferiti, insieme ai depositi, alle nuove banche a un valore equo. I 1800 miliardi di corone depositati erano assicurati con 18 miliardi: nessun sistema assicurativo avrebbe potuto sostenerne i costi. I detentori di bond, questo è sicuro, erano molto arrabbiati.”
“Il problema più grande, a livello internazionale, è stato rifondare i titolari di depositi nelle filiali olandesi e inglesi: finché non abbiamo avuto la disponibilità sufficiente di valuta straniera abbiamo lasciato quei depositi in Islanda. Ma li rifonderemo tutti: il 30% è già rientrato in possesso dei depositi. Alla fine due delle tre banche fallite sono state rifinanziate dai vecchi creditori mentre lo Stato possiede ancora la terza, a causa delle pendenze finanziarie con i governi olandese e britannico”.
“Ci confrontammo con una inevitabile recessione, frutto avvelenato del surriscaldamento economico degli anni precedenti. Tuttavia, scegliemmo di procedere senza adottare le misure draconiane imposte dal Fmi, come i tagli ai sussidi e al welfare. La nostra economia è troppo piccola per poter ricorrere a forti iniezioni di denaro (quantitative easing): tuttavia raggiungemmo gli aggiustamenti macroeconomici necessari, rapidamente e dolorosamente, procedendo a un deprezzamento secco della corona. Una famiglia ha perso in media il 30% del suo potere di acquisto, ma adesso corriamo con un attivo tra import e export stimabile al 10% del Pil.”