Atene non firma, aiuti congelati. Roma collabora ma entra in recessione

Juncker, presidente Eurogruppo a colloquio con il ministro greco Venizelos - LaPresse

ROMA – Mentre l’Italia entra ufficialmente in recessione, l’Eurogruppo rinvia per l’ennesima volta gli aiuti alla Grecia, ormai data per spacciata. Atene, nonostante un altro taglio a stipendi pubblici e pensioni (300 milioni) non ha sottoscritto tutti gli impegni. Il presidente dell’Eurogruppo Juncker ha declassato a semplice teleconferenza la decisiva riunione prevista per oggi (15 febbraio). Tre erano le condizioni fissate: una pronuncia del Parlamento greco (il voto c’è stato domenica), altri tagli al bilancio per 325 milioni, l’impegno dei partiti greci a non mettere in discussione le riforme dopo le elezioni di aprile. Di queste condizioni Atene ha soddisfatto solo la prima: risultato, aiuti congelati. La sfiducia nella classe politica greca non potrebbe essere più grande. Solo che l’incertezza per risolvere quella che il New York Times definisce la più grande ristrutturazione del debito della storia, rischia di abbattersi anche sulla dotazione del fondo salva stati.

Il 20 marzo prossimo scatta la dead line delle scadenze obbligazionarie greche, prima cioè di un default che ormai sembra imminente: Atene deve trovare i soldi per rimborsare 14,5 miliardi di prestiti obbligazionari. D’altra parte, tra rigidità europee (leggi tedesche e nord europee), ricatti incrociati, insipienza politica greca, il tempo corre senza che la diplomazia economica cavi un ragno dal buco. Per dire, ieri si è arrivati a chiedere, da parte di qualche funzionario dei Tesoro nazionali, che anche l’estrema sinistra all’opposizione in Grecia sottoscriva l’impegno a proseguire le riforme: opposizione che contesta il suo governo, le misure draconiane, la moneta unica e la stessa funzione dell’Unione Europea.

Un quadro allarmante, perché un default ellenico è in grado di destabilizzare l’intera area euro. Proprio mentre gli sforzi italiani stanno dando qualche frutto: ma il paziente soffre ancora e resta sotto osservazione. Ieri, in extremis, la Commissione ha deciso di non ufficializzare una bozza del Rapporto in cui l’Italia era inserita in un gruppo di 4 paesi segnalati come casi urgenti, “pressing cases”, in applicazione delle procedure di vigilanza contenute nel “six pack”. Alla fine, siamo passati in una meno penalizzante schiera, in termini di affidabilità, di 12 paesi  la cui situazione macro-economica necessita di un supplemento di analisi.

Un piccolo successo diplomatico, frutto della fiducia accordata a Monti e alle misure adottate. Ma certamente non basta: “abbiamo avuto un paio di mesi buoni, servirà qualche anno allo stesso modo” riassume un editoriale del New York Times focalizzato sulla “fragilità” italiana. La diagnosi è la stessa della Commissione europea: va bene il nuovo corso ma l’altissimo debito pubblico si combina con una crescita ancora troppo bassa. E le prospettive (l’outlook) non incoraggiano l’ottimismo, nonostante anche l’ultima asta da sei miliardi di Btp sia andata bene e i tassi siano scesi al 3,41%. I tagli di Monti intervengono su un’economia che si restringerà del 2,2% solo quest’anno.

Richard Betty, global investment strategist alla Standard Life di Edinburgo, ha inviato un rapporto sull’Italia ai suoi investitori, dove sottolinea che il Paese dovrà lottare per non rimanere incastrata nella trappola della liquidità e del debito. “Dovrebbe crescere di qui alla fine del 2015 del 5%  con tassi di interesse sul debito a 10 anni del 3,6%, ma la crescita media sarà della metà circa mentre i tassi sono al 5,6%”. Sui titoli di Stato stiamo a buon punto, Grecia permettendo. Sulla crescita stiamo lontani, molto lontani.

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Warsamé Dini Casali