ROMA – Lavoro, articolo 18. Renzi “riscopre” indennizzo in soldi al posto del reintegro. “L’esame degli emendamenti all’articolo 4 è rinviato a martedì 16 settembre. Si prevede la conclusione del lavoro della Commissione entro mercoledì 17 e l’inizio dell’esame del disegno di legge in aula il 23 o (più probabilmente) il 24 settembre, con la prospettiva del voto finale in prima lettura entro la fine del mese, o i primi di ottobre”: è l’agenda riforma del mercato del lavoro pubblicata sul suo blog da Pietro Ichino, giuslavorista ex Pd passato a Scelta Civica proprio per il dissenso sul più spinoso degli emendamenti rinviati, quello sull’articolo 18.
Nei piani del Governo la delega lavoro dovrebbe ottenere il via libera del Senato a inizio ottobre prima di passare alla Camera per essere definitivamente approvata entro fine anno. Il condizionale è d’obbligo proprio per la discussione sull’art. 18: la Commissione Lavoro continua a prendere tempo: da un a parte Ncd che spinge per la sua eliminazione integrale (reintegro solo per i licenziamenti discriminatori), e risarcimento monetario che cresce all’aumentare dell’anzianità, dall’altra la minoranza Pd che al massimo accetterebbe la soppressione dell’articolo 18 solo per i primi tre anni dall’assunzione. Bisognerà capire a quale accordo si perverrà per stabilire la forma che assumerà la sperimentazione del contratto a tutele crescenti.
La mediazione di Renzi per uscire dallo stallo potrebbe essere il ricorso all’indennizzo monetario al posto della reintegra (lo prevedeva la Legge Fornero che però assegnava la scelta al giudice, scelta che premia quasi sempre la reintegra) sul posto di lavoro in caso di licenziamento per ingiusta causa, la riproposizione cioè di una vecchia idea (“grande tentazione” la chiama Roberto Mania su Repubblica), non certo una novità dell’ultima ora. Una carta finale che per ora presidente del Consiglio e ministro del Welfare Poletti terrebbero accortamente coperta. Non c’è solo l’articolo 18 e i licenziamenti: Ncd spinge anche per l’introduzione del demansionamento e dei controlli a distanza (telecamere sul posto di lavoro) che potrebbero costituire, come dire, “merce di scambio” nella trattativa più incandescente dell’articolo 18.
Una via che Palazzo Chigi considera eccessivamente costosa ma che, tuttavia, con l’introduzione di un sistema di tutele più ampio rispetto all’attuale, così come prevede il Jobs Act, potrebbe effettivamente rappresentare la base per costruire la soluzione. Il nodo è però politico. Il Pd, al Senato e soprattutto alla Camera, dove in commissione lavoro, a cominciare dal presidente Cesare Damiano, è foltissima la rappresentanza dei deputati di formazione Cgil, vede questa ipotesi come fumo negli occhi.
E rilancia con un modello diverso: contratto a tutele crescenti, con i soli primi tre anni di assunzione privi della garanzia dell’articolo 18. La conferma del lavoratore dopo i tre anni di prova verrebbe “premiata” con un significativo sgravio fiscale. Resterebbe in generale la funzione deterrente della norma dello Statuto dei lavoratori, e, in particolare, a parte i primi tre anni di sospensione, rimarrebbe inalterata nella formula soft introdotta con la legge Fornero di due anni fa.
Davanti al muro contro muro nella maggioranza, il pallino è chiaramente nelle mani del governo. Il quale potrebbe decidere di individuare la soluzione nel decreto delegato che arriverà prevedibilmente l’anno prossimo, oppure trovare fin dalla prossima settimana, o addirittura in questo fine settimana, un accordo con i partiti della sua maggioranza per poi presentare i relativi emendamenti. Dice Cesare Damiano: «Dobbiamo avere “visibilità” su tutto. Non possiamo avere davanti diversi punti bui».
L’ex ministro del Lavoro, oggi esponente della minoranza laburista del partito, chiede un accordo politico. «Altrimenti – aggiunge – si corre il rischio di trasformare la delega sul lavoro in una specie di pallina da ping pong che passa dal Senato alla Camera e viceversa. Questo perché, è bene che si sappia, una eventuale soluzione concordata al Senato senza il preventivo consenso della Camera è destinata a non andare molto avanti. Ripeto, serve un accordo politico impegnativo che vincoli tutti: Renzi, Poletti e le commissioni parlamentari». (Roberto Mania, La Repubblica)