ROMA – La novità sulla riforma del mercato del lavoro è che Cisl e Uil non faranno le barricate, anzi, sono disponibili a fare un tagliando al famigerato (nel senso che lì si focalizza lo scontro) articolo 18. Bonanni (Cisl) ha parlato domenica apertamente di “manutenzione”, Angeletti (Uil) lo segue a ruota invitando tutte le parti in causa a scrivere una legge sul licenziamento per motivi economici. Fatte salve le ragioni discriminatorie, intangibili, si può modificare lo Statuto dei Lavoratori chiarendo nel testo che le ragioni economiche (chiusura, ristrutturazione aziendale ecc..) giustificano l’interruzione di un rapporto di lavoro per la quale ci sarà un indennizzo economico e non più l’obbligo del reintegro. Questo il senso del ragionamento di Angeletti che però, nonostante la contrarietà della Cgil, esclude accordi separati (“su terreni come questo non sono possibili, non faremo strappi”).
Uscendo dal sindacalese stretto, l’altra novità, di ordine più culturale, è che nonostante le battute infelici, tipo “posto fisso monotono” di Monti o laureati a 28 anni “sfigati” del viceministro Martone abbiano giustamente scontentato tutti, si fa strada un atteggiamento meno indulgente, più incalzante verso chi è alla ricerca di un primo impiego. Luca Ricolfi, sulla “Stampa di lunedì 6 febbraio, non si preoccupa del politicamente scorretto sotteso al suo ragionamento: nell’articolo “Disoccupati e la strada verso il nulla” offre un dato rivoluzionario, “i giovani disoccupati non sono affatto 1 su 3, come da mesi si sente ripetere senza tregua, ma 1 su 14. Per l’esattezza: non il 33%, bensì il 7,1% della popolazione nella fascia dai 15 ai 24 anni”.
I dati della Fondazione Leone Moressa per il Sole 24 Ore corroborano la tesi: per un italiano che esce, entrano due stranieri tra le compagini di cuochi, camerieri e baristi; saldatori, montatori, lattonieri; addetti non qualificati nell’industria. Nel giro di tre anni, dal 2007 al 2010, sono usciti da queste categorie 30mila connazionali, “rimpiazzati” da circa il doppio di lavoratori immigrati. Si registra invece una sostituzione “perfetta” (-23mila italiani; +22.700 stranieri) nel commercio ambulante e tra pittori, laccatori e parquettisti. L’ingresso di immigrati (+142mila) non riesce però a compensare gli abbandoni degli italiani (-330mila) tra magazzinieri, manovali, cassieri e braccianti agricoli.
La cruda verità, secondo Ricolfi, è che troppi giovani un lavoro non solo non lo trovano ma nemmeno lo cercano, né nel frattempo studiano o sono impegnati in qualcosa che assomigli a un processo formativo. La sociologia dà un nome a questa generazione: “Neet”, Not in Education, Employment or Training. Prima di discutere di articolo 18, suggerisce Ricolfi, bisogna partire da qui: perché in Italia continuiamo a rilevare la quota occupazionale giovanile pescando su un paniere falsato? Le stime del caso, in tutto il mondo, si fanno su tutta la fascia giovanile presa in esame, non si considera solamente, come da noi, la parte attiva. La quale, in Italia, rappresenta una minoranza, il 25% dei giovani, un misero uno su quattro. E’ chiaro che su prendendo quella minoranza come campione statistico si fa schizzare alle stelle il dato della disoccupazione.
Insomma, come già Antonio Polito sul Corriere della Sera, Ricolfi considera il “toro” la scarsa propensione lavorativa dei giovani italiani e cerca di prenderlo per le corna. Suggerisce Ricolfi, in sintesi: scordatevi gli standard di vita dei vostri genitori, come il posto fisso assicurato, studiate bene e fate presto, e voi papà e mamme non fate i sindacalisti dei vostri figli, perché così facendo li conducete verso il nulla, altro che pensione. Se in Italia ci si laurea mediamente più verso i trenta che verso i venti anni, come succede nel resto d’Europa, vorrà dire qualcosa? Non basta: già a quindici anni il livello istruttivo è deficitario (i test di Pisa lo dimostrerebbero), la scuola non aiuta, non forma, non fornisce gli strumenti per il conseguimento di una laurea o del bagaglio necessario ad entrare nel mondo del lavoro. Argomenti, quelli di Ricolfi, e di Polito prima (e di Monti e di Martone) scomodi ma non aggirabili, che mettono in causa tutto il processo formativo. Con un’unica perplessità: se la difesa ad oltranza dell’articolo 18 non scioglie il nodo dell’inattività giovanile, perché dovrebbe farlo la sua messa in mora?
A tal proposito, sul Sole 24 Ore, viene invece riproposto come modello di contrattazione e di riforma del mercato del lavoro quello tedesco. Guardare alla Germania non è una novità. A parte tutti gli aspetti su produttività, crescita, contrasto alla crisi mondiale, ce n’è uno valorizzato da Carlo Bastasin, molto interessante e che offre qualche motivo di fiducia, anche per noi. In fondo, nonostante “nei primi dieci anni dell’euro l’Italia ha perso circa il 30% di competitività rispetto alla Germania”, la differenza dei nostri prezzi con quelli tedeschi sulle merci che esportiamo è minima. Siamo competitivi: il grosso divario consiste invece nel fatto che “il mantenimento di salari rigidi ed elevati per una fascia di lavoratori è stato pagato dalla fascia meno protetta, spesso immigrati, giovani, donne e lavoratori in nero”. A lungo andare e se interviene una crisi si rompe l’equilibrio tra sistema rigido e sistema precario, quella coesistenza non tiene, si spezza. Significa che per rincorrere i tedeschi, si chiede Bastasin, dobbiamo giocare al ribasso, riducendo tutele e salari della parte cosiddetta rigida e precarizzare l’intero sistema?
Non è affatto detto, anzi, in questo senso Berlino ci offre una lezione. “In Germania nei prossimi vent’anni il numero dei pensionati aumenterà del 50%, mentre quello dei nuovi lavoratori scenderà del 20%. La disoccupazione sembra avere sfondato al ribasso il livello che un economista definirebbe “naturale”, al di sotto del quale scattano maggiori aumenti dei salari reali. Le organizzazioni sindacali più importanti stanno sfruttando questo nuovo assetto nei rapporti di forza tra offerta e domanda di lavoro con richieste di aumenti del 6,5-7%, nonostante il rallentamento dell’economia indotto dalla crisi dell’euro area. Anche se gli aumenti di quest’anno fossero pari al 3%, meno della metà delle richieste, sarebbero comunque i più alti da quasi vent’anni”. Alla fine del processo di ristrutturazione del mercato del lavoro, insperato, non previsto c’è il recupero dei salari invece che della loro erosione?