Il Medio Oriente è in subbuglio. E il mondo teme di “finire la benzina”

Il prezzo del petrolio sta raggiungendo i livelli più alti da due anni (oltre 100 dollari a barile negli Usa) dopo che il suo flusso dal Medio Oriente è stato interrotto dai tumulti regionali.

Le compagnie petrolifere multinazionali hanno diminuito la produzione in Libia dopo la rivolta popolare contro il colonnello Muammar Gheddafi, e secondo gli analisti un milione di barili di petrolio libico al giorno è stato rimosso nei giorni scorsi dai mercati mondiali, a quanto riferisce il New York Times.

C’è poi il pericolo che la produzione di greggio verrebbe ulteriormente ridotta se i tumulti dovessero estendersi anche ad altri cruciali Paesi produttori, come l’Algeria.

Da un punto di vista generale, gli economisti temono che se i prezzi del greggio quest’anno restassero alti potrebbero rallentare la già fragile ripresa economica globale. Secondo una regola empirica, ciascun aumento di 10 dollari nel prezzo di un barile di greggio riduce la crescita del Pil mondiale di mezzo punto percentuale nel giro di due anni.

La Libia produce meno del 2 per cento del petrolio mondiale, ma l’alta qualità delle sue riserve ingrandisce la sua importanza sui mercati mondiali. Il petrolio ”sweet” della Libia non può infatti essere facilmente rimpiazzato nella produzione di benzina, diesel e carburante per aerei, in special modo da molte raffinerie europee e asiatiche che non sono equipaggiate per raffinare il greggio ”sour”, che contiene più zolfo del ”sweet”.

L’Arabia Saudita ha oltre quattro milioni di barili di riserva ed ha promesso di immetterli sui mercati se necessario, ma si tratta principalmente di greggio ”sour”.

Se i tumulti in Libia dovessero protrarsi per altre settimane, gli esperti petroliferi predicono che le raffinerie europee saranno costrette a comprare greggio ”sweet” dall’Algeria e dalla Nigeria, che già sono le principali fonti di ”sweet” per gli Stati Uniti. L’ultima volta che si è verificata una scarsità di greggio ”sweet”, nel 2007 e agli inizi del 2008, i prezzi del petrolio schizzarono a 140 dollari a barile, sebbene quella carenza fu dovuta ad un domanda eccessiva e non ad una interruzione delle forniture.

Bernard Baumhol, capo economista globale all’Economic Outlook Group nel New Jersey, ha pubblicato i risultati di una ricerca in cui afferma  che i tumulti mediorientali ”quest’anno rallenteranno la ripresa economica ”. Ad essere meno vulnerabili direttamente dell’Europa o dell’Asia sono gli Stati Uniti, che hanno grandi raffinerie che possono trattare greggio sia ”sweet” che ”sour”.

Ad essere più colpita dalla crisi in Libia è l’Europa, che assorbe l’85 per cento delle sue esportazioni di greggio, oltre un terzo delle quali vanno all’Italia. Gran parte del resto va in Asia e il 5 per cento negli Stati Uniti. L’Eni, la spagnola Repsol, la francese Total, la norvegese Statoil e la tedesca BASF hanno fermato una buona parte, se non la maggioranza, della loro produzione di petrolio in Libia ed hanno evacuato parte del loro personale.

Barclays Capital stima che si è fermata la produzione di un milione di barili al giorno, oltre la metà della produzione totale libica, per via del fatto che essa, e le attrezzature portuali, sono nella parte orientale del Paese, dove il governo di Tripoli ha perso il controllo.

Gli occhi del mondo petrolifero sono quindi puntati sull’Algeria, un altro Paese con una storia di disordini, che è per importanza il settimo fornitore mondiale degli Stati Uniti. Nelle scorse settimane ci sono state sporadiche proteste contro gli alti prezzi dei generi alimentari e la disoccupazione, incluse due vaste manifestazioni per chiedere le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika.

”I problemi sociali, etnici e religiosi in Algeria sono come una polveriera”, ha dichiarato Michael Economides, docente di economia energetica all’Università di Houston. Ed ha aggiunto: ”Molte raffinerie sarebbero prese da parossismo se perdessero sia il greggio libico che quello algerino”.

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lgermini