Novanta miliardi di euro, quattro volte l’importo dell’ultima manovra di Giulio Tremonti. Un capitale che c’è, e che si potrebbe utilizzare per ricerca, sviluppo, infrastrutture.
Ma i novanta miliardi rimangono là, inutilizzati, per colpa delle lentezze burocratiche del nostro Stato.
“E’ una cifra monstre – scrive Marco Alfieri sulla Stampa – farebbe gola a qualsiasi Paese, non importa la taglia. L’Italia del debito pubblico abnorme paradossalmente ne dispone pronta cassa, ma li tiene sepolti sotto una montagna di burocrazia. Dall’infornata delle leggi Bassanini di fine Novanta, il primo tentativo di disboscare il ginepraio della nostra Pubblica amministrazione fino ai falò leghisti di Roberto Calderoli, la burocrazia resta la bestia indomabile di qualsiasi governo repubblicano.
Premessa. Nel computo di quota 90 non rientrano progetti sulla carta, sprechi inveterati (80 miliardi solo nella Pa), investimenti in divenire oppure la chimera dei 120 miliardi di evasione fiscale che ogni anno il Paese “regala” ai competitor. Neppure rientrano i 35 miliardi tra fondi Fas e fondi comunitari per costruzioni e infrastrutture di cui l’Italia è maglia nera non sapendo spenderli, perché il tiraggio è pluriennale (2007-2013) e il dato non sarebbe omogeneo”.