Se c’è una cosa che infastidisce mortalmente i mercati, questa è l’incertezza. Può costare miliardi di euro e, in queste settimane, il governo italiano ne ha profusa in quantità enormi. Con la decisione sulla manovra questo effetto è ora reso al massimo livello. Siamo ormai certi che l’incertezza è stata eretta a sistema, che le scelte fondamentali per conseguire il pareggio di bilancio sono rinviate alla prossima legislatura. Che ci si barcamenerà nei prossimi mesi sperando di tirare fuori dal cilindro qualche “coniglione”, per acquisire uno sfuggente consenso a ridosso delle sempre imminenti elezioni. Viene alla mente l’orchestrina che suona spensierata sul Titanic, mentre la nave procede verso la parete ghiacciata. Forse Tremonti ha messo nel conto l’attacco dei mercati, per vincere le tentazioni lassiste della sua maggioranza. Di fronte alle nubi della speculazione potrà, magari dopo un venerdì nero delle borse, imporre un cambiamento di rotta e tirare fuori delle carte ancora coperte.
Un paese normale si comporterebbe diversamente, nel metodo e nel merito. Sul metodo l’autismo militante del ministro dell’economia appare insopportabile. Rende quasi simpatico Maurizio Crosetto. La ragione è profonda e risalente. La decisione di finanza pubblica ha le sue regole che non possono essere brutalizzate come è stato fatto negli ultimi 6–7 anni. Decreti-legge finanziari a raffica, che si correggono uno con l’altro, fuori da ogni sessione di bilancio, rimaneggiati confusamente con maxi-emendamenti strangolati dalla posizione di fiducia. Alla faccia della legge di contabilità, riformata con spirito bipartisan alla fine del 2009. Il Parlamento spendaccione non esiste. Tutte le volte che il governo si è presentato con proposte fondate, il Parlamento, nella versione mattarellum o porcellum, ma anche in quella proporzionale della prima repubblica, ha sempre condiviso, magari allargando il consenso, su questioni specifiche, anche alla opposizione. Ma questo non si vuole capire. Prevale il gusto della tabella segreta, snocciolata all’ultimo momento, spesso e volentieri con qualche errore di calcolo.
Sul merito se ne sono dette e scritte di ogni colore. Aumento dell’IVA, dalle persone alle cose. Questo passaggio c’è già stato ampiamente nel corso dell’ultimo trentennio, ed anche in tempi più recenti (il rapporto tra imposte dirette ed imposte indirette passa dall’1,33 del 1998 all’1,04 del 2010, con una leggera risalita negli ultimi anni, secondo i dati della banca d’Italia). Non ha un valore in sé. Potrebbe essere l’elemento di una manovra di bilancio, come è stato fatto recentemente in Inghilterra, (1 punto di incremento delle aliquote vale 8 miliardi di euro), scontando effetti negativi sui consumi e sulle categorie più deboli (che potrebbero essere compensate con sgravi e deduzioni). Ma ha poco senso utilizzare il gettito per coprire la riduzione delle aliquote IRPEF (in particolare il passaggio della maggiore dal 43 al 40 è un regalo alla fascia più ricca della popolazione, un vero Robin Hood alla rovescia). Come definire poi il riesumato ticket sanitario? Dalle persone ai poveracci (forse assimilati alle cose)?
Abolizione dell’IRAP. Una scempiaggine irrealizzabile. Che assesta un altro colpo mortale, dopo l’abolizione dell’ICI sulla prima casa, al federalismo fiscale. “Vedo, pago, voto”. Un principio irrealizzabile senza un tributo proprio sostanzioso per ciascun livello di governo. I comuni avevano l’ICI, le Regioni l’IRAP (le province sarebbe bene abolirle). L’ICI è rimasta sulle seconde case, spesso di proprietà di chi abita fuori dal territorio. O con l’IMU si attiverà (rimettendoci sopra le mani) una sorta di pool tax, conferendo ai comuni la possibilità di accertarla o modularla, o il federalismo rimarrà confinato alle sempre più incomprensibili chiacchiere padane. L’IRAP da un gettito di 38 miliardi, per cui non si può azzerare. Rappresenta inoltre il 70 per cento delle entrate regionali considerate proprie. Serve per finanziare il sistema sanitario. Andrebbe potenziata, soprattutto resa un vero tributo proprio, mettendo le Regioni in condizioni di accertarla e modellarla, nell’ambito di principi generali.
Rendite finanziarie e patrimoni. Anche le prime sembra che, anche questa volta, la abbiano scampata, mantenendo una palese iniquità tra chi percepisce un reddito basso, che paga il 23 per cento e chi detiene strumenti finanziari, che paga il 12,5 per cento. Eppure se ne era parlato molto in questi giorni. Portare tutti al 20 per cento sembra una proposta ragionevole. E’ da sperare che venga ripescata in corsa. In condizioni di emergenza poi prelevare una decina di miliardi dai patrimoni non dovrebbe evocare i bolscevichi che abbeverano i cavalli nelle fontane di piazza San Pietro. Sarebbe solo una scelta di buon senso che potrebbe peraltro compensare altri aspetti della manovra particolarmente difficili per i sindacati (come gli interventi sull’età pensionabile). Ma tant’è.
Se serve una manovra netta da 43–47 miliardi (come scrive il Sole 24 Ore) bisognerebbe aggiungere qualche miliardo per rilanciare la crescita (un piano per i giovani), oltre ad un piano di liberalizzazioni (stralciato sul nascere) e ad una riorganizzazione degli investimenti (i 1.000 cantieri). Bisognerebbe fare la manovra subito, senza pericolosi rinvii, che potrebbero costare molto cari. Bisognerebbe dividere a metà l’azione sulle entrate e quella sulle spese (25 e 25).
Delle entrate si è detto. Sulle spese si potrebbe partire dalla tassonomia del prof. Piero Giarda che però non deve rimanere segreta, ma essere oggetto di un grande dibattito nazionale, trasparente e concentrato, nazionale e locale. Speriamo solo che tra spending review e tagli lineari, non si finisca con un l’ennesimo condono.