BARI – Per anni è stato considerato “l’Olivetti della Murgia”. Ora per Pasquale Natuzzi il vento è cambiato: c’è la crisi e c’è un piano di riassetto industriale che prevede 1700 esuberi. Troppi per i sindacati che non “conciliano” e definiscono il piano “vergognoso”. Ma cosa è successo? Come un’azienda fiore all’occhiello del Mezzogiorno che poteva fare industria è finita in crisi.
La versione di Natuzzi, esposta in una lunga chiacchierata col Corriere della Sera, individua dei responsabili precisi: c’è la concorrenza sleale di chi fa prodotti fotocopia sfruttando manodopera in nero e sottopagata e chi dovrebbe controllare e non lo fa. E poi ci sono gli immancabili cinesi. Racconta l’industriale:
Dieci anni fa ho cominciato a visitare le prefetture di Bari e di Matera, ho bussato alla Guardia di finanza e ogni volta ho lasciato denunce precise con fatti, nomi e cognomi». E sì, perché quello che è successo nella Murgia ha dell’incredibile. Dietro l’azienda leader è nato un sistema di imprese che producevano gli stessi divani, utilizzavano i lavoratori in cassa integrazione dalla Natuzzi e producevano in Italia a prezzi cinesi. Chi doveva vigilare non lo ha fatto, i sindacati hanno chiuso gli occhi e attorno alla Natuzzi sono nate e si sono sviluppate aziende formalmente guidate da cinesi che aprivano e chiudevano ogni 14 mesi.
Natuzzi non si fa problemi a fare i nomi.
«Calia, Chateau d’Ax, Nicoletti, Poltrone e Sofà, tutti hanno adottato lo stesso modello di business. E il presidente del distretto del salotto della Lucania, Tito Di Maggio, ha dichiarato ufficialmente di produrre al costo industriale di 25 centesimi al minuto. Ma come fa se il costo industriale di un’azienda in regola, tipo la mia, è di 92 centesimi!». Come si spiega tutto ciò? La verità è che sono nate imprese come quelle citate da Natuzzi che in realtà erano solo dei marchi commerciali. Pochi dipendenti, tutto marketing, una buona spesa pubblicitaria usando come testimonial attrici e miss Italia. Queste aziende sono cresciute fabbricando divani nelle cantine dei paesi a cavallo tra la Puglia e la Lucania e utilizzando manodopera in nero o lavoratori Natuzzi in cassa integrazione che trasferivano know how dell’azienda madre. «Una volta — racconta lo stesso Pasquale — la Guardia di finanza individuò due operai in cassa che stavano lavorando in un’altra azienda. Noi li licenziammo immediatamente e il magistrato mi ha costretto a riassumerli».
Secondo Dario Di Vico che lo ha intervistato, l’industriale non è però senza colpe:
Detto del clima di straordinaria illegalità che ha avvolto il distretto in questi anni senza che la politica muovesse un dito e che le autorità facessero il loro dovere, è evidente che anche l’imprenditore Natuzzi ha commesso i suoi errori. Chi conosce le aziende sostiene che avrebbe dovuto organizzare il ciclo produttivo in maniera meno integrata e più flessibile, che avrebbe dovuto curare di più l’efficienza e che forse ha esagerato ad aprire negozi (300) in quasi tutto il mondo.
Ora resta la crisi e quelle 1700 persone che rischiano il posto di lavoro.