Il dibattito sull’imposta patrimoniale, rilanciato dall’ex premier Giuliano Amato prima e dal banchiere cattolico Pellegrino Capaldo poi, ha avuto un’accelerazione con una lettera del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi al Corriere della Sera. Berlusconi, che si rivolge anche al segretario del Pd Pierluigi Bersani, fa esplicito riferimento alle interviste apparse sul Corriere della Sera il 22 dicembre e il 26 gennaio scorsi, rispettivamente ad Amato e Capaldo, ma anche alla presa di posizione molto netta presa, sullo stesso quotidiano milanese, dal vicedirettore della testata Dario Di Vico, mentre poche pagine più in là, un altro vice direttore dello stesso Corriere, Massimo Mucchetti, insisteva sulle idee di Capaldo, invitando a una riflessione più profonda sulla situazione debitoria dell’Italia.
La scelta di Berlusconi di intervenire sul tema con la proposta di un “piano bipartisan per la crescita dell’economia italiana” indubbiamente tocca il nervo scoperto del deficit e del debito nazionali, ma sembra anche essere una mossa per elettorale, prendendo facile posizione contro le follie da comunisti proposte da Amato, e nello stesso stesso tempo una tattica per cercare di allontanare il fuoco dello scandalo Ruby.
“Vorrei brevemente spiegare perché il no del governo e mio va al di là di una semplice preferenza negativa, «preferirei di no», ed esprime invece una irriducibile avversione strategica a quello strumento fiscale, in senso tecnico-finanziario e in senso politico”, scrive il presidente del Consiglio trovandosi d’accordo con la tesi di Di Vico secondo cui un ricorso alla patrimoniale punirebbe solo il ceto medio.
Quella ”botta secca” tirata in ballo da Amato e Capaldo secondo il premier ”impaurisce e paralizza il ceto medio” come un’imposta patrimoniale ed è ”una rinuncia statalista, reazionaria, ad andare avanti sulla strada liberale”.
Lo scopo ”indiretto ma importantissimo” di una ”frustata al cavallo di un’economia finalmente libera”, aggiunge il presidente del Consiglio, ”è di portare all’emersione della ricchezza privata nascosta”. Azione che sarà la ”più grande frustata che la storia italiana ricordi”, per portare la crescita oltre il tre-quattro per cento in cinque anni” per fare capire ”ai mercati che quella è la strada imboccata dall’Italia. Paese ancora assai forte. Paese esportatore” con ”grandi riserve di energia, di capitali, di intelligenze e di lavoro”. Per farlo, scrive ancora il Cavaliere ”occorre un’economia decisamente più libera, questa è la frustata di cui parlo, in un Paese più stabile, meno rissoso, fiducioso e perfino innamorato di sé e del proprio futuro”.
Il fulcro del piano del governo, spiega Berlusconi, è la riforma costituzionale dell’articolo 41, ”annunciata da mesi dal ministro Tremonti, e misure drastiche di allocazione sul mercato del patrimonio pubblico e di vasta defiscalizzazione a vantaggio delle imprese e dei giovani”.
In questi termini Berlusconi chiarisce la sua posizione rispetto a quella che Di Vico ha definito “un’operazione straordinaria tesa ad abbattere con un colpo secco il maxidebito italiano e riaprire così la strada alla possibilità di finanziare la crescita, seppur con giudizio”.
Se il presidente del Consiglio si rivolge al segretario Pd Pierluigi Bersani per agire insieme in Parlamento per discutere “senza pregiudizi ed esclusivismi” è, a detta sua, per rilanciare la crescita italiana. “Prima di mettere sui ceti medi un’imposta patrimoniale che impaurisce e paralizza, un’imposta che peraltro sotto il mio governo non si farà mai, pensiamo a uno scambio virtuoso”, dice Berlusconi.
Nell’edizione di domenica del Corriere, Dario Di Vico aveva affidato a una intera pagina del giornale la sua analisi, prima di concludere con un “patrimoniale? No, grazie”: “E’ chiaro che il debito andrebbe abbattuto in tempi brevi per uscire dall’italica maledizione della crescita bassa, ma siamo sicuri che la patrimoniale si riveli una «bomba intelligente» e invece non finisca per colpire coloro che le tassa le pagano già abbondantemente? Un Robin Hood che alla fine se la prendesse con il ceto medio perderebbe la faccia. E se invece scegliessimo, come propone Capaldo, la via immobiliare alla riduzione del debito abbiamo in dotazione la strumentazione adatta per operare con equità? Oppure, come ha obiettato un attento conoscitore della macchina fiscale come Tommaso Di Tanno su «Milano Finanza» , si finirebbero per tassare le persone fisiche e non le società che hanno i patrimoni immobiliari più consistenti e ricchi? E ancora, cosa ci vieta di mettere direttamente sul mercato il mattone di Stato e le Spa pubbliche? Grazie, dunque, ad Amato e Capaldo per aver riconnesso l’agenda pubblica con le vere priorità del Paese ma qui ed ora vien da dire: «Patrimoniale? Preferirei di no»” .
Diversa invece la posizione dell’altro vicedirettore del Corriere della Sera, Mucchetti che insiste sulla tesi di Capaldo di privatizzare metà del debito pubblico italiano: “Nemmeno chi ritiene equo considerare anche il settore privato nella valutazione del rischio Italia può dimenticare che la ricchezza delle famiglie non garantisce di per sé la solvibilità dello Stato. La solidità patrimoniale di famiglie, imprese e banche può certo evitare la necessità di salvataggi a spese dell’Erario, ma non riduce il rischio sovrano esistente”, ragiona Mucchetti.
Quindi si chiede come si può intervenire sul debito pubblico, e soprattutto in quanto tempo: in primis, spiega il giornalista, va ricordato che “le privatizzazioni più remunerative l’Italia le ha già fatte e che il saldo primario tra entrate e uscite correnti è stato positivo per parecchi anni. E tuttavia è bastata questa crisi per riportare i conti pubblici al 1992, quando i tassi, essendo alti, potevano scendere e c’era ancora tutto da vendere. Oggi non è più così. I tassi sono al minimo storico e in campagna elettorale Berlusconi può pure promettere di cedere patrimonio pubblico per 700 miliardi, ma poi nemmeno ci prova. Anche perché il numero è teorico”. Quindi conclude: “Capaldo ha lanciato una provocazione che va forse capita meglio ma sarebbe certo più forte se fosse accompagnata da un disegno di legge costituzionale alla tedesca per stabilire l’obbligo di chiudere almeno in pareggio il bilancio primario dello Stato e dalla scelta politica di destinare il risparmio sugli interessi alla riduzione delle imposte sulle imprese e sul lavoro per rilanciare la crescita”.