ROMA – Il progressivo innalzamento dell’età anagrafica per le donne raggiungerà la piena equiparazione a quella degli uomini, come criterio di vecchiaia unico per andare in pensione, nel 2018. A quota 66 anni e 7 mesi. Nel 2012 è fissata a 66 anni per le dipendenti del pubblico impiego, a 62 anni nel settore privato, a 63 anni e 6 mesi le autonome. Nel 2018 queste differenze saranno state via via armonizzate. Tra i requisiti per un trattamento di pensione anticipato (anzianità è una parola che scomparirà dal vocabolario Inps) oggi è necessario aver versato contributi per 41 anni e un mese. Nel 2012 41 anni e 5 mesi e via via progredendo in considerazione della maggiore aspettativa di vita.
Tuttavia esistono delle eccezioni, delle scappatoie legislative contemplate nella manovra che permettono a una lavoratrice di andare in pensione, per esempio, a 57 anni. O 58 per le autonome più i 12-18 mesi di finestra sopravvissuta alla loro eliminazione. Ma con almeno 35 anni di contributi. Accettando questo trattamento che consente l’uscita anticipata si accetta anche lo svantaggio in termini remunerativi. Quelle pensionate prenderanno di meno. Diciamo una decurtazione media intorno al 15%. Questo perché l’assegno previdenziale sarà calcolato, in questo caso, esclusivamente con il metodo contributivo, cioè facendo riferimento ai contributi effettivamente versati nell’arco della vita lavorativa e non all’ultima busta paga.
La clausola è un lascito della riforma Tremonti-Maroni del 2004, sopravvissuta a quella del governo Monti. Finora le donne vi avevano fatto pochissimo ricorso, la penalizzazione economica costituiva un deterrente efficace. Ora l’opzione viene riconsiderata: è l’ultimo treno per andare in pensione 5 o 6 anni prima del dovuto. Tra quelle che possono saranno in molte a salire su questo treno. A costo di pagare un biglietto parecchio oneroso.