Pensioni “libere” da 63 a 70 anni: chi esce prima piglia poco

ROMA – Sulle pensioni, tema spinoso per eccellenza, l’esecutivo Monti procederà a una risistemazione complessiva per eliminare “le ampie disparità di trattamento e aree ingiustificate di privilegio”. Quindi stop alle pensioni calcolate con il sistema retributivo, in favore di quello contributivo esteso a tutti. Le aliquote saranno più omogenee: la giungla contributiva attuale consente oscillazioni tra le diverse categorie che ledono il principio di equità (dipendenti 33%, artigiani 20%, deputati 8%, architetti 12,5% ecc….).

Le soluzioni allo studio seguiranno le idee del neo ministro del Welfare, Elsa Fornero, nota esperta di previdenza, che propone una forchetta tra i 63 e i 70 anni come età di uscita dal lavoro con assegno via via più pesante al crescere dell’età pensionabile. Intanto la fascia flessibile dovrà valere per tutti, uomini e donne. Un modo per superare la disparità di trattamento per cui le donne del privato escono dal lavoro a 60 anni mentre gli uomini a 65.

Ma questa flessibilità dell’uscita dal lavoro può rappresentare una soluzione al problema dell’eliminazione delle pensioni di anzianità. Gli assegni previdenziali saranno commisurati a un calcolo variabile dell’importo: il coefficiente sarà più alto man mano che aumenta l’età di uscita dal lavoro. In questo modo si terrà conto dei contributi versati e della minore aspettativa di vita. Il limite minimo di 63 anni potrebbe anch’esso essere suscettibile di deroghe: si potrebbe uscire anche a 60 anni ma a quel punto l’assegno sarà calcolato unicamente con il sistema contributivo, ammesso che sia 1,2 volte superiore alla pensione minima .

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Warsamé Dini Casali