PORTO TOLLE (ROVIGO) – La decisione del Consiglio di Stato che ha accolto un ricorso delle associazioni ambientaliste contro la centrale di Porto Tolle (Rovigo) non è solo un colpo a uno dei progetti più importanti di Enel in Italia. La sentenza pone le basi per un potenziale blocco della riconversione al “carbone pulito” dell’impianto. Ma soprattutto ripropone in termini ancora più fragorosi il vecchio dilemma tra sviluppo e tutela dell’ambiente. Perché contro i progetti industriali ed energetici non ci sono più, o meglio non solo, i comitati pubblici, i difensori del paesaggio senza se e senza ma, le associazioni civiche o i pasdaran delle rinnovabili: il vero nemico, o il maggiore antagonista, è l’amministrazione pubblica, in tutte le sue declinazioni operative. Dall’altra parte il blocco che sostiene la costruzione di nuove centrali nucleari, o il ritorno al carbone, non è rappresentato unicamente dagli interessi multinazionali o governativi per un approvvigionamento energetico più a buon mercato, o dai fautori incalliti dell’assioma più sviluppo industriale uguale progresso. Al loro fianco si schierano anche i lavoratori penalizzati dagli stop agli impianti, i dipendenti Enel in primo luogo, ma anche tutti i sindacati che organizzano la protesta preoccupati che alla fine la compagnia energetica se ne vada all’estero.
Cosa dice in sostanza il Consiglio di Stato? Il 17 maggio il Consiglio di Stato ha annullato il Decreto di compatibilità ambientale, rilasciato dal Ministero dell’Ambiente il 29 luglio 2009, per la conversione a carbone pulito della centrale di Porto Tolle, in provincia di Rovigo, sul delta del Po. In questo modo, è stato rovesciato l’esito positivo della sentenza emessa dal Tar del Lazio il 14 ottobre 2010 che aveva respinto i ricorsi contro l’autorizzazione.” Ricorsi sostenuti non solo dagli ambientalisti (Greenpeace, Wwf e Italia Nostra), ma anche da una serie di soggetti pubblici e privati del Polesine, operatori turistici ed economici, che volevano bloccare una fonte di possibile inquinamento. Con danni gravi sia all’ecosistema del Delta del Po che alle attività turistiche del litorale polesano. I giudici volevano che la discussione vertesse soprattutto sulla mancata valutazione – nella riconversione della centrale – dell’uso del gas-metano (molto meno inquinante) in alternativa al carbone.
Il nostro paese paga la bolletta più alta d’Europa: un chilowattore costa di più alle nostre aziende rispetto alle “concorrenti” tedesche o francesi. Per diminuire il prezzo dell’energia bisognerebbe usare combustibili meno costosi rispetto al gas, come il carbone o il nucleare. Ma gli elettori in Sardegna che con una maggioranza bulgara hanno detto no all’atomo e, appunto, la sentenza su Porto Tolle, rendono impraticabile, se non impossibile, questa via. Cosa fare allora, quando si pone il dilemma di dover scegliere tra la realizzazione di un impianto che crea occupazione, lavoro e quindi ricchezza per un territorio e la tutela ambientale a tutti i costi?
La risposta dovrebbe essere politica, come si dice in questi casi: ma il discorso pubblico, da questo punto di vista, è impantanato, gli stop and go, i rimpalli di responsabilità, le sentenze contrastanti della magistratura hanno portato allo stallo, alla paralisi.
Dicevamo dell’amministrazione pubblica come intralcio numero uno allo sviluppo. Gli enti locali fanno la guerra al governo centrale. Le diverse magistrature si sfidano a colpi di sentenze (vedi Consiglio di Stato contro Tar). Sul Sole 24 del 19 maggio, sono riportati i risultati del censimento realizzato dal Nymby Forum (nymby, acronimo per not in my backyard, ovvero non nel mio cortile di casa). Il risultato è illuminante: contro centrali elettriche, inceneritori, linee ferroviarie, stabilimenti ecc. gli oppositori più duri sono sindaci e presidenti delle province. Al punto che si deve ricorrere a un altro acronimo significativo: “nimpto” (not in my terms of office) ovvero “non quando sono io in carica”. Nel 60% dei veti elevati dalle municipalità riguarda amministrazioni guidate da liste civiche, mentre i comuni governati da destra o sinistra si attestano al 20%. Gli oppositori più spietati invece sono i comuni (o le province e talvolta le regioni) vicini. E’ un dato interessante. I comuni interessati ai progetti sono favorevoli o contrari nella metà dei casi: ma nell’89% dei casi a inscenare la contestazione più feroce sono i comuni limitrofi o confinanti.
E veniamo alla questione più spinosa e che accomuna trasversalmente produttori e operai, governo e sindacati. Nell’esprimere il proprio stupore, Enel ricorda che “questa decisione (la sentenza del Consiglio di Stato) rischia di cancellare un progetto necessario per la sicurezza degli approvvigionamenti energetici del Paese e per la riduzione del costo finale dell’energia”. I numeri, le cifre del progetto sonio impressionanti, tali da giustificare lo sconcerto del ministro Romani e l’angoscia di migliaia di addetti che temono di perdere il posto di lavoro. L’Enel ricorda che “l’intervento di riconversione dell’impianto prevede un investimento di circa 2,5 miliardi di euro nell’arco di cinque anni e oltre 3.000 posti di lavoro nel periodo di costruzione dell’impianto, con l’impiego diretto e indiretto, a regime, di circa 1000 persone.” Preoccupate anche le imprese della provincia di Rovigo che denunciano lo scandalo di uno stop a un progetto dove c’era il consenso di tutte le istituzioni e del territorio e per il quale è stato ascoltato solo un pugno di associazioni che non rappresentano la volontà del territorio stesso. Intanto la protesta di mercoledì dei dipendenti Enel organizzata a Porto Tolle verrà replicata a breve anche a Roma. Con il concorso di tutte le rappresentanze sindacali, dalla Cgil alla Rsu, per una volta uniti nella battaglia per conservare il lavoro.