PRATO – Le spiegazioni della tragedia di Prato, sette operai cinesi morti nell’incendio di una fabbrica-dormitorio, sono tutte nei numeri che mette in fila Silvia Pieraccini sul Sole 24 Ore:
“È in virtù di questi numeri – 1 azienda su 6 a Prato è cinese, i residenti provenienti dal paese del Dragone continuano a crescere senza freni (oggi sfiorano i 16mila, ai quali vanno aggiunti i non-residenti, per un totale che supera i 40mila orientali) – che la città toscana nel 2012 è risultata al primo posto in Italia per incidenza delle imprese a conduzione straniera sul totale di quelle registrate, col 26% (al secondo posto c’è Trieste con l’11%).
A dare linfa e vigore a questo esercito di aziende manifatturiere è l’infinita disponibilità di manodopera senza pretese e senza diritti, che gli imprenditori cinesi possono reperire in qualsiasi momento anche in altre città d’Italia e d’Europa, attivando il sistema di relazioni ramificate all’interno delle altre comunità cinesi.
È per questo che una delle principali carte che il distretto cinese può spendere sul mercato internazionale è la rapidità nello smaltimento delle commesse – fino ad assicurare abiti e magliette cuciti e stirati in 48 ore – unita, naturalmente, al basso costo della manodopera, che può essere anche nullo nel caso (assai frequente) in cui il lavoratore cinese debba ripagare col proprio lavoro il costo della trasferta in Italia che è stato anticipato dal datore di lavoro o da organizzazioni criminali.
Il risultato è una competizione sul prezzo che lascia allibiti: una giacca a tre bottoni costa 2,30 euro di cucitura, 45 centesimi di bottoni, 80 centesimi di stiratura, 30 centesimi di taglio e 50 centesimi di guadagno del confezionista, per un prezzo totale di 4,35 euro a cui va aggiunto quello della stoffa (spesso importata dalla Cina a prezzi dieci volte inferiori a quelli dei tessuti prodotti a Prato, 50 centesimi al metro contro cinque euro); il costo di un pantalone può arrivare a 3,20 euro, comprensivo di 1,50 euro di cucitura, 10 centesimi di bottoni, 80 centesimi di stiratura, 30 centesimi di taglio e i “soliti” 50 centesimi di guadagno del confezionista.
Nei laboratori-dormitorio si lavora fino a 16-18 ore al giorno (le restanti servono per dormire e mangiare senza muoversi dallo stabilimento), senza neppure conoscere conquiste come il salario minimo e l’orario di lavoro. In realtà il funzionamento del mercato del lavoro cinese a Prato – messo in luce da una ricerca dell’istituto Ires del 2012 – è in grado di scoraggiare anche un volenteroso sindacalista alle prime armi: la mortalità dei contratti è altissima, e a distanza di quattro anni (dal 2008 al 2012) appena l’8% dei lavoratori risulta ancora occupato. Di fronte a una stima di lavoratori cinesi a Prato che si aggira sui 30-35 mila, poco più di 12mila sono quelli impiegati (rispetto agli oltre 38mila che hanno avuto un contratto negli ultimi anni), per il 70% nel settore abbigliamento. Ventimila lavoratori, in gran parte clandestini, restano invisibili alle banche dati e al fisco.
Gran parte dei contratti, addirittura il 91%, è a tempo indeterminato, fatto che si spiega con la consolidata abitudine dei datori di lavoro cinesi di pretendere dal lavoratore una lettera di dimissioni in bianco; e la forma di gran lunga prevalente è il part time, così da pagare meno contributi”.