Chi riteneva che la rapida salita dei prezzi dei generi alimentari, verificatasi sul mercato mondiale negli scorsi anni, fosse destinata a terminare nel 2011, ha visto demolite le sue ottimistiche previsioni dall’andamento dei primi mesi di quest’anno. Un paio di settimane fa la Banca Mondiale ha dovuto lanciare un nuovo allarme: il suo indice dei prezzi delle materie prime alimentari è aumentato del 36 per cento in un anno, mentre nel solo primo trimestre 2011 il mais, ad esempio, è cresciuto del 17 per cento. Prodotti come il mais, il riso e il frumento in un anno sono schizzati all’insù tra il 60 e il cento per cento. Per noi famiglie dell’Occidente sviluppato, che per mangiare spendiamo tra il 6 e il 15 per cento del nostro reddito (a seconda dei paesi), il fatto che alcuni cereali siano raddoppiati di prezzo rappresenta nella media un fastidioso inconveniente e nullla più. Ben diverso è il discorso per i paesi “in via di sviluppo” in alcuni dei quali la spesa alimentare sta intorno al 40 per cento del reddito (per due miliardi di persone assorbe addirittura tra i 50 e il 70 per cento del reddito). Sempre la Banca mondiale ha calcolato che in meno di un anno, dal giugno 2010, altre 44 milioni di persone, sono scese nel pianeta al di sotto della soglia estrema di povertà, fissata a 1,25 dollari al giorno, meno di un euro. Un tabellone elettronico posto di fronte alla sede della World Bank, a Washington, mostra il numero di denutriti nel mondo: sono oltre un miliardo e crescono al ritmo di più di una unità al secondo.
Cifre che fanno riflettere. Ma soprattutto occorre riflettere su un altro fenomeno, ancor più preoccupante. Finora, come del resto è avvenuto nei decenni e nei secoli trascorsi, il boom dei prezzi alimentari è stato attribuito a eventi come la siccità in alcune regioni, l’eccesso di piogge in altre, alcuni conflitti in aree delicate, malattie epidemiche delle piante, ecc. Tutti fenomeni congiunturali, venuti meno i quali la produzione agricola si riportava a livelli adeguati alla domanda e i prezzi tornavano più o meno agli equilibri precedenti la crisi. Anche per gli incrementi degli anni più recenti, tra 2007 e 2010, sono state evocate, fra l’altro, la siccità in Argentina e in Cina, i roghi delle coltivazioni dovuti al caldo africano la scorsa estate in Russia e nella regione del Mar Nero, il ritardo delle piogge in Canada, le inondazioni in Pakistan e in Australia, la speculazione che amplifica i disastri meteorologici e i sommovimenti sociali. Tutti episodi gravi ma transitori, appunto. Insomma, preoccupiamoci pure ma non stracciamoci le vesti. E invece no: ci dobbiamo proprio allarmare perché è sempre più chiaro che dietro all’aumento dei prezzi alimentari vi sono fenomeni strutturali, di lungo e lunghissimo periodo, che possono produrre catastrofi economiche e ribaltoni politici anche sanguinosi (un assaggio lo abbiamo avuto in questi mesi in Egitto, Siria, Tunisia, Libia, ecc.).
Proprio in questi giorni, a sostenere con la massima chiarezza e dovizia di dati la tesi di uno squilibrio strutturale fra un’offerta di beni alimentari (cereali soprattutto) stagnante e in taluni casi in calo e una domanda fortemente crescente, sottolineandone le pesanti implicazioni geopolitiche, è arrivato uno scritto di Lester R. Brown pubblicato sulla prestigiosa “Foreign Policy” (maggio-giugno): “The New Geopolitics of Food”. Brown, che è presidente dell’Earth Policy Institute, ricorda che un raddoppio dei prezzi dei cereali (è il caso del mais fra febbraio 2010 e 2011) per i più poveri del pianeta “significa passare da due a un pasto al giorno”. Ma veniamo alle cause strutturali. Innanzitutto vi è l’aumento della popolazione mondiale: si tratta di 219 mila bocche da sfamare in più ogni giorno, cioè circa 80 milioni all’anno (in gran parte nel Terzo mondo), con la prospettiva per la metà di questo secolo, fra meno di 40 anni, di toccare i nove miliardi di abitanti sul globo.
