Sempre a proposito di acqua si sta registrando un altro fenomeno disastroso: il progressivo consumo delle falde freatiche. In regioni dove la piovosità naturale o i corsi d’acqua non sono più sufficienti per l’irrigazione dei campi si ricorre sempre di più all’estrazione dalle falde. Ma in molti casi lo sfruttamento dei pozzi avviene con una velocità assai maggiore di quella con cui le riserve d’acqua si ricostituiscono. Risultato: si risolve i problema della scarsità idrica sul breve periodo ma lo si aggrava sul medio-lungo. Nel saggio più volte citato è riportato l’esempio dell’arida Arabia Saudita. Qui per circa un ventennio lo sfruttamento delle falde ha consentito una illusoria autosufficienza nella produzione di frumento. Ora la pacchia è finita: l’acqua sfruttabile non c’è più e si deve importare quasi tutta la produzione cerealicola. Una ventina di altri paesi si trovano nella medesima situazione di “bolla alimentare” basata sull’acqua. Sostiene Brown che le “bolle” più rilevanti legate allo svuotamento dei pozzi sono quelle di Cina e India. Qui la produzione non si è ancora ridotta come in altri paesi. Ma quando avverrà lo scoppio della bolla sarà fragoroso (attualmente 130 milioni di cinesi sarebbero sfamati grazie all’“overpumping”).
Tutto quanto sintetizzato fin qui sta avvenendo in un contesto che è diverso dal passato anche per quel che riguarda il ruolo di “soccorso di ultima istanza” esercitato per decenni da alcuni paesi, gli Usa in primo luogo. Quando in passato si sono verificate crisi alimentari in questo o quel popoloso paese, le eccedenze produttive americane sono state utilizzate come cuscinetto. Brown cita ad esempio la crisi produttiva indiana del 1965: gli Stati Uniti poterono spedire in quel paese alla fame un quinto della loro produzione di frumento. Oggi margini di questo genere non esistono più.
In questa realtà che va rapidamente deteriorandosi si sta affermando la regola del “si salvi chi può”. I contratti pluriennali di fornitura di cereali a un prezzo prefissato sono una ciambella di salvataggio sempre più difficile da ottenere: i venditori-esportatori sanno di avere il coltello dalla parte del manico e comunque pensano che anche la loro domanda crescerà. La strada preferita da numerosi paesi importanti, Cina in primo luogo, è dunque diventata quella dell’acquisto o dell’affitto di terreni coltivabili su larga scala, per lo più nel Terzo mondo dove il canone annuale di un acro di terra (spesso a beneficio di ristretti quanto ingordi ceti dirigenti) può ammontare a un dollaro. Secondo la World Bank queste “rapine di territorio” riguarderebbero in totale 140 milioni di acri, all’incirca 50 milioni di ettari.
Con i terreni, la “rapina” riguarda anche le acque usate in grande quantità per lo sfruttamento intensivo che quasi mai i paesi “ospiti” avevano praticato, per inadeguatezza dei capitali e delle tecnologie. Sempre più spesso questo procedere causerà ribellioni delle popolazioni locali che si vedranno portar via i frutti dei loro terreni. Quegli stessi terreni che magari fino a poco prima avevano coltivato pur senza possederne validi titoli di proprietà. E altri problemi e conflitti internazionali si possono aprire per l’accresciuta utilizzazione in un paese di acque a cui attingevano più nazioni. Un esempio concreto e lampante è dato dall’acquisizione di vasti territori da parte della Cina in Etiopia e Sudan, con il relativo sfruttamento delle acque dell’alto Nilo e la conseguente deprivazione di risorse idriche per l’Egitto. Le nuove tendenze alla scarsità di alcuni generi alimentari fondamentali, dunque, come si accennava all’inizio, stanno determinando nuovi scenari geopolitici. E non dei più rassicuranti.
