Il governo italiano ha fatto sapere ai suoi evasori fiscali che hanno soldi in Svizzera che è meglio riportarli indietro. Lo ha fatto sapere, e capire, mandando la Guardia di Finanza nelle banche che hanno legami con la Svizzera e nelle filiali italiane delle banche svizzere. Il messaggio è stato chiaro e forte: non crediate di potervi riparare dietro il segreto bancario, noi nelle banche ci entriamo, anche quelle svizzere, quindi “scudate” che vi conviene.
La Svizzera l’ha presa malissimo: l’ambasciatore italiano a Berna sarà convocato dalle autorità svizzere che hanno reagito così alle perquisizioni condotte il 27 ottobre in Italia da agenti della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate in 76 filiali di istituti finanziari svizzeri.
Il ministro degli Interni elvetico, Pascal Couchepin, ha definito l’operazione «un atto discriminatorio e una razzia» nei confronti delle banche elvetiche. Una “razzia”, cioè un recupero di massa dei soldi, tanti, centinaia di miliardi di euro, portati negli anni nelle casse elvetiche da chi arricchiva in Italia ma preferiva stare lontano dal fisco italiano. Ora il fisco italiano, su mandato del governo, mette in scena la classica sequenza dei due poliziotti. C’ è quello buono che fa pagare solo il 5 per cento sui capitali che rientrano (risparmio medio del 38 per cento sulle tasse che avrebbero dovuto pagare). E quello cattivo che spiega: cogliete l’occasione o pagherete domani di più. Non scherza il governo elvetico, ma neanche scherza quello italiano: Tremonti ha bisogno dei proventi dello scudo fiscale: per la polizia, la sicurezza, la riforma dell’Università, gli alluvionati, i terremotati, i rinnovi del pubblico impiego, il taglio o taglietto all’Irap. La “guerra dello scudo” tra Italia e Svizzera non fa prigionieri, si libera solo chi paga e si salva solo chi incassa.
La situazione ha proseguito il ministro «ci preoccupa». «La Svizzera – ha annunciato il portavoce del governo elvetico – convocherà l’ambasciatore italiano a Berna, dovrà fornire spiegazioni su un’azione percepita come discriminatoria dal Consiglio federale».
