S&P, Moody’s e gli altri: rating o stalking?

foto Ap/Lapresse

ROMA – Con piglio nient’affatto angelico la cancelliera tedesca Angela Merkel nei giorni scorsi ha metaforicamente preso a sberle le tre signore del rating mondiale: Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. “Dobbiamo smetterla di ascoltarle come oracoli”, è sbottata Frau Angela, “noi – e soprattutto la troika formata da Fmi, Bce e Commissione Ue – non dobbiamo rinunciare alla nostra capacità di giudizio”. Da settimane le grandi agenzie di rating mandano ripetutamente in fibrillazione governi e istituzioni sovranazionali, per non parlare dei mercati, con i loro annunci “terroristici”.

S & P (2,7 miliardi di dollari di fatturato) il 13 giugno aveva abbassato il suo voto alla Grecia, al livello CCC, a due passi dal baratro del default. Tre settimane dopo, il 4 luglio, l’agenzia americana fondata negli anni ’40 ha bocciato seccamente le proposte per l’allungamento delle scadenze del debito greco elaborate dalla Federazione bancaria francese e che sembravano condivise dai ministri finanziari dell’Unione europea: se prendete questa strada – hanno minacciato gli uomini di S & P – “per noi equivale a un default”. In altre parole, se le scadenze del debito vengono spostate in avanti, sia pure con l’assenso – obtorto collo – dei creditori, questa soluzione “concordata” viene considerata “selective default” (quando un debitore non riesce ad onorare alcuni degli impegni assunti al momento dell’emissione del debito). Le conseguenze di un simile giudizio sono molto gravi, sia per il paese dichiarato fallito che per le istituzioni finanziarie che gli hanno fatto prestiti (o che sarebbero disposte a fargliene di nuovi). Non è un caso che un portavoce del governo greco, piuttosto innervosito, abbia ribattezzato le agenzie di rating come “agenzie di speculazione”.

Ma torniamo ai nostri giustizieri dei debiti sovrani. Il 5 luglio è la volta di Moody’s (1,8 miliardi di dollari di fatturato), l’agenzia più antica (1909), che d’un solo botto toglie ben quattro voti dalla pagella del Portogallo, declassando il debito di Lisbona da Baa1 a Ba2 e inserendolo a tutti gli effetti fra gli “high yield” (titoli ad alto rendimento, che suona bene ma che sono anche chiamati “junk bond”, cioè titoli spazzatura). Detto in altri termini, Moody’s consiglia di acquistare i bond portoghesi solo a chi vuole avventurarsi sul terreno speculativo, ad alto rischio, mentre i risparmiatori che desiderano starsene moderatamente tranquilli sono avvertiti: meglio tenersene lontani. E’ dopo quest’ultimo avvertimento che la solitamente misurata cancelliera tedesca ha perso la pazienza.

foto Ap/Lapresse

Neppure il Bel Paese è stato risparmiato negli ultimi tempi dagli strali delle agenzie. S & P poche settimane fa ha abbassato l’outlook dell’Italia da “stabile” a “negativo” (vale a dire: per ora non ti abbasso il voto ma vedo nuvoloni sul tuo orizzonte). Più di recente è stata la volta della numero due, Moody’s, che ha anch’essa posto sotto esame la classificazione italiana (Aa2) minacciando di rivederla all’ingiù. Pochi giorni fa S & P, non paga, è interventuta mentre stava per essere varata la manovra di finanza pubblica, sostenendo che le misure probabilmente non sarebbero state sufficienti ad evitare un abbassamento del rating. Intervento quantomai inopportuno perché avvenuto a Borse aperte (lo spread dei titoli italiani rispetto a quelli tedeschi è subito salito) e senza che vi fosse ancora un testo definitivo della manovra. Vibrate le proteste della Consob ma, a quanto pare, le agenzie possono dire quel che a loro piace e a qualsiasi ora, mentre i governi e la Ue non possono sottrarsi alla condizione di ostaggi delle suddette. Per inciso, le grandi signore del rating sono tutte americane e l’dea di far nascere nuove agenzie europee indipendenti non riesce a concretarsi.

Un altro scossone al mercato italiano Moody’s lo ha dato il 23 giugno, annunciando che avrebbe messo sotto esame ben 16 primarie banche e due istituti finanziari italiani legati allo Stato per i quali era possibile un downgrade: immediato il crollo dei valori in Borsa. Una riduzione di un voto in pagella costa all’emittente, sia esso Stato o corporation, un aumento di quasi mezzo punto nel costo della raccolta di credito sul mercato. Con un debito sovrano come quello italiano uno “starnuto” di S & P può significare un maggiore esborso miliardario: è ben spiegabile l’apprensione, il timore reverenziale, la fifa e anche un po’ l’odio con cui molti paesi guardano ai pronunciamenti dei maestrini d’Oltreoceano.

Da cosa deriva il potere senza pari di queste inflessibili signore del rating? Sono autorevoli proprio in quanto inflessibili? Balle. In realtà nei loro armadi le agenzie nascondono numerosissimi scheletri, molti dei quali per la verità sono ben noti ma non le hanno indebolite: continuano a dettar legge. Clamorosi i casi di due grandi gruppi collassati negli scorsi anni: Enron e Lehman Brothers. Fino a pochi giorni prima del loro crollo le “autorevolissime” agenzie li avevano valutati con i massimi gradi di sicurezza. Per non parlare delle promozioni a pieni voti elargite prima del 2007 a numerosissimi titoli americani basati su mutui che sovrastimavano i valori immobiliari e che precipitarono gli Usa, e il resto del mondo, nella crisi finanziaria del 2007-2008.

E che dire, per tornare ai casi nostri, di Parmalat a cui S & P attribuiva – ancora pochi giorni prima del crack da 14 miliardi di euro che ha messo sul lastrico decine di migliaia di risparmiatori, fornitori, dipendenti, ecc. – un rating di tutto rispetto (BBB-/A3)? In questi giorni il Tribunale di Milano ha stabilito, bonta sua!, che S & P deve restituire i compensi percepiti per le attribuzioni di rating “investment grade” alla Parmalat negli anni precedenti il crollo del gruppo di Calisto Tanzi. Una bazzecola, 784 mila euro più le spese processuali, mentre l’agenzia non è stata condannata a pagare i danni delle sue dissennate stime, danni che sarebbero stati ben altrimenti elevati. La giustificazione delle teste d’uovo di S & P? Abbiamo sbagliato il rating perché Parmalat ci forniva dati falsi e “fuorvianti”! Cioè questi signori che si fanno strapagare per le loro autorevoli valutazioni si fanno “fuorviare” dal Cavalier (ex) Calisto e non si prendono neppure la briga di verificare l’attendibilità delle cifre, di farsi venire qualche dubbio da studente dell’ultimo anno dell’istituto tecnico commerciale di fronte a un bilancio così macroscopicamente fasullo!

Angela Merkel (Ap/Lapresse)

Come diceva Giulio Andreotti? “A pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca”. E nel caso in oggetto è difficile non fare malevole illazioni sul fatto che i rating dei grandi gruppi industriali o bancari vengono profumatamente pagati dai medesimi alle agenzie. Quelli invece che riguardano i debiti sovrani sono spontaneamente offerti (in pasto) al mercato da S & P e compagnia. Sarà per questo che con i primi le agenzie sono state per tanti anni, fino alla crisi 2007-2008, di manica larga, anzi larghissima, mentre con i secondi si comportano da Terminator (caso Argentina a parte)?

Ha dunque ragione Frau Merkel ad arrabbiarsi. Peccato che i rating delle già citate agenzie (in tutto sono un centinaio, ma le tre nominate all’inizio, e specialmente le prime due, sono di gran lunga predominanti) molto spesso vengano utilizzati dalle istituzioni pubbliche, europee e non, per valutare le strategie di investimento di fondi, banche, assicurazioni. La cancelliera, ma ormai non solamente lei fra i leader europei, si è resa conto che le “previsioni” delle agenzie sono magari sballate e basate su analisi poco serie ma finiscono per autoinverarsi grazie all’autorevolezza (spesso non giustificata) della fonte. In altre parole, se un’agenzia prevede un default, questo pronostico può essere decisivo per farlo effettivamente verificare. E se assegna un basso rating a un titolo, la sua valutazione può costare salatissima allo Stato o all’impresa emittente, anche se non vi sarebbero altri motivi per riconoscere alti tassi di interesse sui loro bond. E noi paghiamo, direbbe Totò.

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Alessandro Avico