ROMA – Eni guarda lontano e fa progetti a lungo termine: il colosso petrolifero cerca una crescita rapida ”non solo per i prossimi quattro anni” ma per ”le prossime decadi”, grazie ad un aumento della produzione nei giacimenti e ad un nuovo sostenuto piano di investimenti da 60 miliardi di euro.
Per il quadriennio 2012-2015 l’amministratore delegato, Paolo Scaroni, garantisce la ”solidità finanziaria” e conferma la politica dei dividendi, anche se l’attenzione di fronte alla comunità finanziaria londinese devia continuamente verso Snam e l’uscita del gruppo dal business delle reti.
Un’uscita voluta dal governo e che solo fino a un paio di anni fa sarebbe stata vissuta come un’imposizione, ma che ora Eni è pronta ad affrontare quasi per liberarsi di un asset ritenuto non più essenziale. Non a caso l’obiettivo del gruppo è quello di uscire completamente dal capitale della società , senza mantenere nessuna quota di minoranza, del 5 o 10% che sia (soglie emerse nella discussione in Parlamento del decreto liberalizzazioni), ed ottenere dalla vendita della propria partecipazione ”benefici per gli azionisti”.
L’operazione, ha spiegato in pratica Scaroni, ”dovrà riconoscere l’intero valore di mercato” del 50% detenuto nella società , pari a circa 7 miliardi di euro. Parole che gelano le ipotesi circolate finora su un possibile passaggio a costo zero della quota da Eni a Cassa Depositi e Prestiti.
”La posizione del consiglio di amministrazione di Eni – ha chiarito – è che il processo di cessione deve rispondere a tre criteri. Deve portare benefici agli azionisti di Eni, e quindi deve riconoscere l’intero valore di Snam, deve proteggere gli interessi degli azionisti di Snam e deve rafforzare il bilancio di Eni in vista dei suoi obiettivi di sviluppo”.
Che appunto non hanno più nulla a che fare con le reti: ”Il mio cervello ha smesso di pensare a Snam – ha insistito Scaroni – stiamo disinvestendo e non è più il mio business, qualcuno ci penserà ”.
La crescita sarà tutta basata quindi sulla produzione (+3% annuo fino al 2015) soprattutto su cinque aree chiave (Russia, mare di Barents, Kazakhstan, Venezuela e la regione dell’Africa sub-sahariana), ”oltreché sul rapido recupero della produzione libica a livelli ante crisi”.
Nei quattro anni gli investimenti saliranno quindi a quasi 60 miliardi di euro ed oltre il 75% sarà destinato alle attività cosiddette “upstream” in quei Paesi da cui ci si aspetta di più e dunque allo sviluppo dei progetti di Zubair (Iraq), Junin 5, Perla (entrambi in Venezuela), Goliat (Norvegia) e Kashagan (Kazakhstan)
