ROMA – La rivolta in Libia ha prodotto la conseguenza attesa: la sera del 21 febbraio l’Eni ha bloccato il gasdotto Greenstream che attraversa il Mediterraneo per 527 km portando il ogni giorno 25 milioni di metri cubi di gas (circa il 12 per cento del nostro fabbisogno) fino a Gela.
Ora il rischio riguarda le importazioni di petrolio: dalla Libia all’Italia ne arrivano ogni giorno 50mila tonnellate, quasi un quarto del consumo giornaliero.
Come nelle precedenti tensioni tra Russia e Ucraina, che hanno avuto ripercussioni sulle forniture di gas all’Italia, anche oggi si assiste alle conseguenze concrete delle crisi geopolitiche.
Come sottolinea oggi Repubblica, tutti i fornitori di materie prime all’Italia sono paesi a “rischio”: ibia (23%), Russia (14,8%), Iran (13,4%), Azerbaijan (13,1%) e Iraq (9,9%) ci vendono da soli tre quarti del petrolio che consumiamo. Algeri (31%), Mosca (28%) e Tripoli (12%), ci forniscono il 70% del gas.
L’effetto diretto è che non appena uno di questi rubinetti viene chiuso per l’Italia c’è il rischio caos.
Certo, la chiusura di Greenstream non è micidiale: il Tag, il gasdotto che dalla Russia arriva fino a Tarvisio in questi giorni è colmo solo al 60%, portando 107 milioni di metri cubi al giorno. Il Transitgas, che veicola attraverso la Svizzera gli idrocarburi di Norvegia e Olanda, è mezzo carico dopo la chiusura per frana di fine 2009. soltanto il Transmed, il cordone ombelicale che lega i giacimenti algerini all’Italia, opera vicino alla sua capienza massima di 99 milioni di metri cubi quotidiani.
Anche il rigassificatore di Rovigo lavora a pieno ritmo. In otto depositi “strategici” nel sottosuolo italiano ci sono riserve per 3,8 miliardi di metri cubi, pari al fabbisogno nazionale di un mese.
Ma certo, se oltre a Greenstream chiudesse un altro dei gasdotti l’economia italiana correrebbe grossi rischi.
