C’è un uomo in mezzo al campo, che ha tutto di una macchina: il cervello è un sistema informatico, il tronco e le braccia hanno dimensioni e fattezze aerodinamiche, le gambe sono compassi, i piedi strumenti esatti – la calibrazione dei quali viene sviluppata nel centro sportivo d’allenamento. Si racconta che quando Nils Liedholm sbagliò il suo primo passaggio, dopo un interminabile numero di partite senza un solo errore, lo stadio di “San Siro” proruppe in un applauso a scena aperta.
Ha anche la freddezza, della macchina: senza, non può meritare le chiavi della squadra, non è il regista. I compagni in attesa del ritmo al quale adattarsi, il fiato addosso di spettatori che riversano speranze e paure sul suo passo, la pressione fisica degli avversari che vogliono rubar palla – mandare in cortocircuito il sistema, dall’interno. Soprattutto, pesa la responsabilità nei confronti dell’allenatore: perché il regista deve fare ciò che il mister farebbe se ne avesse le doti. È raro trovare il giusto custode delle proprie idee. Non è per capriccio che Walter Novellino ha voluto Sergio Volpi ovunque, con sé; e ugualmente, se negli anni anche quest’ultimo ha attraversato l’Italia e le categorie (Venezia in A, Piacenza e Sampdoria fra A e B, Reggina in B), è perché il regista ama scegliere le idee di calcio da custodire.
Della macchina ha la fragilità, infine. Per contrappasso, per troppa intelligenza tattica e troppa velocità mentale, fra i calciatori è il meno dotato nel fisico, nell’atletica e nella velocità. Per motivare il suo addio al calcio giocato, Ivan De La Peňa spiegò: «La mia testa voleva continuare, ma il mio corpo non ce la faceva». In campo il regista si riconosce subito: dalla lentezza, dal ripiegare con prudenza, dal debole impatto nei contrasti. Il cuore della squadra è delicato; di qui, la beffarda necessità d’avere accanto il giocatore diametralmente opposto – ovvero il mediano – che lo difenda. Questa sua vulnerabilità ne fa una specie rara, in via d’estinzione, nel calcio moderno del pressing e dell’ipermuscolarità. La strana coppia regista–mediano scompare, fondendosi nell’unità del cosiddetto ‘centrocampista moderno’ – tecnica e interdizione, allo stesso tempo. La specializzazione viene sostituita dalla polifunzionalità. Il futuro sembra aver scelto di stamparsi sulla maglia i nomi di Gerrard, Iniesta, De Rossi.
Se la storia personale di un calciatore condiziona il suo modo di stare in campo, è facile spiegare certe dinamiche. David Pizarro viene da una famiglia di pescatori: educato alla pazienza, sa meglio di altri che il momento giusto – per tirar su l’amo come per fare un lancio che tagli il campo – bisogna saperlo aspettare. D’altronde, se il ruolo impone di cucire i reparti e tessere trame di gioco, non è un caso che Volpi sia figlio di un sarto. L’eleganza in campo, è probabile che Béla Guttman la traesse dalla danza classica: figlio di due ballerini, di danza era lui stesso insegnante. La passione di Roberto Baronio è il disegno: linee, metodo, intelligenza; alla scuola media, i professori gli consigliavano di iscriversi al liceo artistico. Di Schiaffino era nota l’avarizia: così, da grande regista, sul terreno di gioco non sprecava un pallone e dosava gli sforzi per restare lucido.
Tendenzialmente il regista ha un carattere introverso, spesso è un timido, di certo non è un istrione. Non ama parlare di sé, sa dribblare anche le invadenze del calcio ipermediatizzato di oggi. I tifosi può conquistarli solo col pallone, perché schiva le interviste e non è mai ruffiano neanche in campo. È l’anti-show e l’anti-politico: non sa cavalcare l’onda, inaridisce gli entusiasmi, col ‘giocare semplice’ riporta tutto alla testa e dimostra che un lancio lungo smarcante non è genio – è un lancio lungo smarcante: tecnica, nient’altro.
Tommaso Giagni su Vicolo Cannery il 17 settembre 2012
