Per un momento sembra plausibile persino l’obiezione dell’alto funzionario («a che serve una carta geologica contro 700 millimetri d’acqua in 12 ore? »), e non viene in mente di rispondere che gli uomini fanno le cure ricostituenti pur sapendo che un giorno potrebbero finire sotto un camion. Poi, pian piano, si fanno strada i primi sospetti. Si comincia a capire. Esiodo, Leonardo, gli anatemi contro la violenza cieca degli elementi svolgono una funzione di copertura, coprono la tendenza all’immobilismo.
Perché è vero che il problema della difesa del suolo non si risolve in due, né in cinque e neppure in dieci anni, per cui è comprensibile che l’«esperto» s’impazientisca a sentirlo porre secondo schemi semplicistici, non abbastanza articolati, di rimboschimento, di opere idrauliche, di revisione del quadro legislativo. Ma è vero pure che il problema s’era posto diciotto anni fa (con la prima, terribile alluvione del Polesine), e che da allora assai poco, quasi nulla, è stato fatto per risolverlo in modo organico. Questa inchiesta è un po’ la storia delle cose non fatte, delle occasioni perdute, del perché l’Italia è restata, di fronte al problema, lì dov’era vent’anni fa.
