«Sono sopravvissuto. Avrei potuto chiamarmi Muhamed, Ibrahim, Isak, ma non ha importanza. Io sono sopravvissuto, molti no. Fra la loro morte e la mia vita non c’ è alcuna differenza, perché sono rimasto a vivere in un mondo che in modo duraturo, irreversibile, è stato segnato dalla loro morte». Emir Suljagic si è salvato perché faceva il traduttore per le Nazioni Unite a Srebrenica. Uno dei 17 nomi bosniaco-musulmani sulla lista vistata dai serbi a cui è stato concesso di uscire sull’ ultimo camion dei soldati olandesi. Su Srebrenica ha scritto un libro spaventoso, pacato e bellissimo, Cartoline dalla fossa (Beit), che esce la settimana prossima anche in Italia. E’ il primo diario sul massacro di 8 mila uomini musulmani da parte dei serbi di Mladic, avvenuto tra l’ 11 e il 16 luglio 1995. Ma è più di questo, perché – lo capirete leggendo, mentre quasi tutti in Europa lo ignorano – Srebrenica ha inizio prima di Srebrenica. «Sono stati – dice Suljagic – tre anni di assedio e cinque giorni». Oggi Emir sarà nell’ ex enclave Onu, dove si era rifugiato a 17 anni nel 1992, come tanti altri. Ci saranno le 5 mila persone partite una settimana fa da Tuzla, 105 km di marcia in senso inverso sui sentieri dove i serbi hanno inseguito e sterminato le colonne dei loro parenti. Ci saranno, per la prima volta, a seppellire le 775 bare con i resti delle vittime identificate, il presidente croato Ivo Josipovic e quello serbo Boris Tadic. Presente Erdogan, assente…