Aurelio Zen, il poliziesco italiano made in England

LONDRA – Il romanzo poliziesco ha da secoli una storia privilegiata con l’Inghilterra: questa è la terra di Sir Arthur Conan Doyle e di Agatha Christie, qui nacque e qui diresse i molti dei suoi film Alfred Hitchcock. L’Italia, lontana per tradizione dai moduli narrativi del giallo, un genere essenzialmente anglosassone, sembra oggi partita alla conquista del mercato britannico. Una serie televisiva ambientata a Roma e la traduzione di diversi autori italiani stanno formando in Inghilterra un nuovo orizzonte del poliziesco. Dopo la voga dei romanzi scandinavi, è venuta l’ora di quelle italiani? Dopo le brume della Svezia le piazze italiane?

A onor del vero, il capofila di questa new wave italiana di italiano ha solo l’immaginario passaporto. Aurelio Zen, agli onori della cronaca grazie alla BBC, è il personaggio partorito dalla mente dello scrittore Michael Dibdin ed in queste settimane in onda su piccolo schermo. Sulla quarantina, poliziotto, separato dalla moglie, vive con sua madre. Si aggiunga all’edificante ritratto un’ “infelice reputazione per l’onestà” (Aurelio Zen paga sempre il caffè, anche quando il barista lo prega di non farlo..) e un andar per le spicce in certe occasioni.

Aurelio Zen potrà dirsi italiano quanto vuole, ma è pur sempre il figlio della «perfida Albione», più nella polpa e nelle ossa, forse, che nei modi. L’algida compostezza non ricorda gli “sbragati” ispettori italiani (Montalbano in testa), e Aurelio Zen, come il suo creativo padre, è senz’altro più british che “romano de Roma”. Per capirlo, d’altronde, basta osservare qualche spezzone della serie.

La famosa “sospensione dell’incredulità” – il primo atto della fede poetica del lettore – è particolarmente ardua quando il poliziotto si destreggia in un inglese da Oxford. Un giornalista inglese poi, commentando Cristina Murino (con un ruolo nel film), nota in effetti come, al suo fianco, Rufus Sewell sembri veramente inglese.

Se gli uomini della serie sono tutti inglesi e sembrano, secondo testimonianza di un critico del Guardian, appena «usciti da una rivista» patinata di moda maschile, le donne sono quasi tutte italiane. A quanto pare, la donna italiana sarebbe un prodotto locale di difficile imitazione. Come spiega Andy Harries, uno dei produttori di Zen, «le donne inglesi non possono interpretare delle donne italiane, perché c’è qualcosa di caratteristico nella forma italiana».

Oltre alle donne procaci, nel repertorio di cliché che spettano agli italiani, c’è spazio per l’assurdità. Anche l’assurdità è difatti, sempre secondo il quotidiano Guardian, una parte dell’immagine (esotica?) dell’Italia. La constatazione può diventare pretesto per considerazioni sullo stato del Belpaese. Se l’assurdità è una componente del giallo, «esiste fortunatamente un posto dove con un lavoro incessante sono stati ridisegnati – i confini dell’assurdità. Il nome di quel posto è Italia.» E continua il giornalista: «è il posto ideale per un dramma poliziesco perché non c’è bisogno di perdere tempo prezioso creando una storia di corruzione e intrighi. Sono cose che vengono da sole, nascono sul terreno, come le piazze ombrose e i palazzi in rovina».

Un film sull’Italia, anche quando regolato dagli imperituri ed universali meccanismi del giallo, è pur sempre un film sull’Italia, e dunque, in una certa misura, un esercizio di esotismo moderno, come in fondo dimostrano queste poche osservazioni. Mentre si gustano le avventure per il piccolo schermo di Aurelio Zen, discretamente accolte dalla critica, non si può che augurare successo a quei detective veramente italiani, di origine controllata e protetta, che sono stati o saranno a breve tradotti in inglese. E non sono pochi, da Giancarlo de Cataldo a Michele Guittari, passando per i più affermati, come Andrea Camilleri.

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fmontorsi