(Bertoldo appare sul fondo della scena e vi resta fermo)
Come il remoto progenitore, anche questo era un villico difforme e di bruttisimo aspetto, pochi capelli rossicci, orecchie appuntite, naso a pigna, greve di complessione e peloso, con un gozzo così grosso da parer triplice; ma dove mancava l’armonia della persona, suppliva la vivacità dell’ingegno; e oltre l’acutezza anco era astuto, malizioso, esperto di mondo per aver molto viaggiato e essersi adoprato in mille occupazioni. Ma a cagione degli avvenimenti e delle mode che affliggevano la società sua contemporanea piuttosto tristo era di natura. Indossava un logoro paio di pantaloni azzurri genovesi chiamati jeans sdruciti sul deretano, e una scolorita maglietta dell’Università di Tirana, scarpe da ginnastica sfondate, sulla testa uno strausato cappello texano Stetson.
(Bertoldo attraversa la scena per giungere al trono)
Passò dunque Bertoldo, dagli amici denominato anche Bertie, in mezzo a tutti quei Ministri e senatori e deputati e primati e gazzettieri e uffiziali ch’erano nella grande sala, senza cavarsi il cappello nè fare atto alcuno di riverenza e andò di bella posta a sedere appresso all’Arciduca, il quale, benigno di natura e dilettoso di facezie, benchè di temperamento cangievole, sovrabbondante nel parlare e alquanto bigotto, s’immaginò che quello fosse qualche stravagante umore, e principiò piacevolmente a interrogarlo.
ARCIDUCA: Chi sei tu?
BERTOLDO: Un contribuente esasperato.
ARCIDUCA: Tutti i contribuenti lo sono.
BERTOLDO: Non quelli che evadono le tasse. (Cerca con lo sguardo tra la folla) Dov’è il Ministro delle Finanze?
ARCIDUCA: E’ quello laggiù.
BERTOLDO: (sorride con tutta la bocca sdentata) Stavo in chiesa, inginocchiato fuori dal confessionale aspettando il mio turno, quando per caso ho sentito la voce di un penitente che diceva al prete: «Sino a quanti milioni posso imbrogliare il Fisco, reverendo, senza che mi neghi l’assoluzione?».
ARCIDUCA: Perchè entrando non mi hai reso omaggio con la riverenza, come era tuo dovere?
