I ricettari italiani dal ‘700 al 1943: “Scrivere di gusto” di Agnese Portincasa

I ricettari italiani dal ‘700 al 1943: “Scrivere di gusto” di Agnese Portincasa

ROMA – Può uno degli stereotipi più noti, e di maggior successo, la cucina italiana, avere ancora qualcosa da raccontare agli appassionati? E’ la sfida che ha raccolto Agnese Portincasa, autrice del libro “Scrivere di Gusto” (edizioni Pendragon), che dalla sua ha, oltre alla passione per la gastronomia, la formazione e la dedizione dello storico.

Sì perché le sorprese, quando guardiamo al nostro patrimonio gastronomico, sono ancora tante e le ritroviamo in questa storia dei ricettari che abbraccia il periodo storico che va dalla fine del ‘700 fino al 1943. Un periodo ampio e di enormi trasformazioni, tutte riflesse nel gusto e nelle abitudini degli italiani a tavola.

Nel ‘700 i menù parlavano ancora francese, quelli delle tavole dei signori ovviamente. Nell’Ottocento la cucina si adegua ai gusti della nuova classe dirigente, quella borghesia che si affaccia anche nel nostro Paese e che ama risotti, bolliti e non rinuncia a un piatto di maccheroni. Nel ‘900 i menù di corte dei Savoia vengono scritti in italiano, segno che l’aristocrazia ha ormai definitivamente abbandonato quel senso di subordinazione verso la cucina e la cultura francese per farsi, anche a tavola, inequivocabilmente italiana. Poi c’è la crisi, il Fascismo, la guerra e in mezzo le bizzarre sperimentazioni dei Futuristi (gli spaghetti? Roba da trogloditi!), e persino un primissimo ricettario di cucina vegetariana pubblicato nel 1930.

Nelle pagine di “Scrivere di gusto” passa anche la storia del costume: i ricettari iniziano ad avere un certo successo di pubblico a partire dalla fine del ‘700, quando alla figura dello chef a servizio dei signori (che riceveva una formazione da un maestro, possibilmente in Francia per i più fortunati e prestigiosi) si affianca l’appassionato, quello con meno pretese, fino al cuoco, la cuoca, la servetta.

Il XX è il secolo del “nation building” gastronomico, che passa principalmente dalle pagine de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi, pubblicato nel 1891 ma oggetto di numerose e fortunate edizioni. Il pubblico di Artusi è nazionale, l’interlocutore è la massaia, la classe a cui si rivolge è la borghesia, lo stile è più colloquiale e meno scientifico, la materia prima è spesso plebea ma gustosa. Ecco ad esempio cosa scrive Artusi nell’incipit della ricetta della Torta di Patate:

“Molta gente mangia più con la fantasia che col palato e però guardatevi bene sempre dal nominare, almeno finché non siano già mangiati e digeriti, quei cibi che sono in generale tenuti a vile per la sola ragione che costano poco o racchiudono in sé un’idea che può portare ripugnanza; ma che poi, ben cucinati o in qualche maniera manipolati riescono buoni e gustosi”.

Il ricettario diventa quindi lettura anche per i borghesi che iniziano a cucinar da sé: le signore, anche di buona famiglia, dagli anni Venti iniziano a ricevere nella dote il “Talismano della Felicità”, clamoroso successo di Ada Boni, vendutissimo per decenni. Proprio il ‘900 vede il fiorire di una letteratura gastronomica femminile, scritta da donna a donna.

La protagonista della dispensa e della cucina si ritaglia uno spazio in questo mercato editoriale con alcuni ricettari di indiscusso successo. Il genere, quello femminile, identifica uno specifico pubblico e insieme racconta, anche in questo caso, una pagina di storia. Questi ricettari contengono sì ricette ma soprattutto l’eterno ammaestramento al culto del focolare, tanto centrale nella retorica fascista e non solo.

Caso più eclatante è Petronilla, nome d’arte di Amalia Moretti Foggia Della Rovere, di ottima famiglia e laureata in scienze naturali. Nelle vesti di Petronilla, nella sua indimenticabile rubrica sulla Domenica del Corriere, si impone come prima “food writer” italiana. Petronilla non si pone come una “maestra” o una professoressa, ma come un’amica civettuola che condivide con le sue lettrici le gioie e le fatiche della vita familiare, scandita da mariti brontoloni, da figli esigenti ma irresistibili e dalle spese da contenere.

La sua lettrice è urbana e piccolo borghese, può avere personale di servizio oppure no, ma una cosa è certa: è una donna che ha fatto della sua condizione, rigorosamente relegata al focolare, una missione. L’”imprenditrice” della casa, esperta nelle sue mansioni, è il perfetto contraltare dell’uomo che ha invece una dimensione lavorativa e professionale, al di fuori della casa. La donna ha il ruolo di curare i malati, nutrire, dare gioia e lenire le sofferenze. Quest’ultimo aspetto diventa centrale durante la Guerra, e qui il talento di Petronilla si confronta con il difficile esercizio, retorico ma anche di sostanza, di alludere alle difficoltà del periodo senza però citarle esplicitamente, per non ”fiaccare il morale” di una nazione in guerra.

Nel corso del secolo e mezzo preso in esame da Portincasa la cucina è uscita dall’ambito degli esperti per farsi genere letterario, il ricettario si è fatto oggetto domestico, aperto e consultato di tanto in tanto, tramandato di generazione in generazione, messo in bella mostra sullo scaffale. Nel mezzo la cucina si è fatta “food”, nobile argomento di conversazione quando fino a pochi decenni prima nelle tavole di un certo livello era considerato disdicevole parlare di ricette e preparazioni di intingoli vari.

Agnese Portincasa, “Scrivere di gusto – Una storia della cucina italiana attraverso i ricettari”, Pendragon edizioni, 24 euro.

Published by
Elisa D'Alto