ROMA – La cioccolata cattolica si può bere o no? “Liquindum non frangit”, dice il principio cattolico. Motivo per cui la cioccolata da bere sarebbe concessa anche durante il digiuno ecclesiastico. Ma la sua componente “burrosa” e decisamente gustosa si pone diretta sulla sottile linea che divide il semplice gusto dal lussurioso peccato di gola.
E così la cioccolata ha sollevato dubbi e dibattiti lunghi due secoli, dividendo i cattolici in due fazioni. I “pro cioccolata” da bere, che hanno sdoganato la bevanda, e i “contro cioccolata“, che l’hanno etichettata come “diabolica” e peccaminosa tanto da paragonare i suoi consumatori da “posseduti dell’estasi del gusto”.
Massimiliano Panarari su La Stampa ripercorre il dibattito della cioccolata da bere, ri-lanciato nel libro “La cioccolata cattolica” scritto dal biblista Claudio Balzaretti. Nel libro Balzaretti parte dall’arrivo della cioccolata in Europa e ricostruisce i grattacapi religiosi della relazione tra teologia e alimentazione, su cui medici e religiosi non si risparmiarono teorie e considerazioni:
“A dare il via alle dispute era stato il medico Juan de Cardenas, autore del primo scritto interamente consacrato al cacao (e ispirato alla teoria dei quattro elementi), che ne giustificava, sotto il profilo della salute, il consumo da parte di chi viveva nelle Indie, ma evidenziava anche come contrastasse con il precetto del digiuno a causa della sua componente burrosa – ragione per la quale il dibattito si concentrerà moltissimo sugli ingredienti usati nella preparazione.
Dal mondo religioso si alzò da subito il fuoco di sbarramento, dal beato Iordan de Santa Catalina (vissuto in Messico) alla confraternita dei domenicani (perentoriamente contrari, senza se e senza ma). E la nutrita e agguerrita corrente anti-cioccolata (che annoverava tra le proprie argomentazioni più «incisive» quella relativa al potere lascivo e afrodisiaco della bevanda) poteva pure contare su vari fiancheggiatori laici, che andavano da Francisco Hernández de Toledo, medico personale di Filippo II (e da lui inviato nella prima «missione scientifica» oltreoceano, durata sette anni) a uno dei maggiori ingegni dell’età barocca, il letterato e politico Francisco de Quevedo, che parlava del «diavolo della cioccolata», trovando i suoi fan (i chocolateros) quasi dei posseduti dall’estasi del gusto”.
Non tutti i religiosi erano però contro la bevanda al cioccolato, tanto che il gesuita Antonio Escobar y Mendoza nella sua Teologia morale sdoganò la cioccolata cattolica:
“da considerarsi quale pura bevanda se conteneva solo un’oncia di cacao e una e mezza di zucchero sciolte in acqua. Mentre, alla metà del XVII secolo, la frazione «giustificazionista» della degustazione della bevanda al cacao conquistava esponenti illustri della Curia e della gerarchia, dal cardinale Juan de Lugo al cardinale Francesco Maria Brancaccio”.
Assolta dunque dai gesuiti, la cioccolata cattolica non ha avuto vita facile per oltre due secoli:
“Il consumo dei derivati del cacao – espressione tipica di quei generi voluttuari che hanno veicolato una delle prime forme della globalizzazione dei commerci – ancora a metà Settecento era infatti riservato alle élite; tanto da aver suggerito allo storico delle mentalità Wolfgang Schivelbusch di mappare una geopolitica del gusto, che vedeva la frattura tra un’Europa della cioccolata (adorata dall’«inerte e parassitaria» nobiltà di rito cattolico) e quella del caffè (simbolo della «sobria e attiva» borghesia di religione riformata). Ma, col passare del tempo, della bevanda al cacao si approprieranno sempre più largamente le rampanti classi medie, ed essa arriverà infine a deliziare anche il palato del popolo, facendo dimenticare quanto nei secoli precedenti, all’interno della confessione cattolica, si fossero confrontati aspramente un partito pro e uno anti-cioccolata”.