Stefan Zweig è stato uno dei più grandi – se non il più grande in assoluto – biografi del Novecento ed è unanimemente riconosciuto. Non tutti però sanno che è stato anche un raffinatissimo cultore di storie “nascoste” ed un fine psicologo nell’analizzare alcune delle personalità più complesse finite sotto la sua lente. Lo dimostra la raccolta di saggi, pubblicata da Piano B, Uomini e destini che è una delle prove anche stilisticamente più riuscite, e perciò coinvolgenti, di Zweig.
Lo scrittore austriaco, naturalizzato britannico, nato a Vienna nel 1881 e, come tanti dei suoi biografati, artefice del suo stesso tragico destino che si compì in Brasile, a Petròpolis il 23 febbraio 1942, quando decise di porre fine alla sua avventura umana. Ritenne il gesto estremo l’unica risposta alla persecuzione nazista dalla quale era fuggito portandosi dietro quella antica idea di Europa alla quale era rimasto fedele che vedeva svanire sotto l’incalzare della disfatta morale e culturale, prima che militare e politica.
Aveva una sensibilità non comune Zweig. Comprendeva i segni del tempo più e meglio di altri pur acuti osservatori suoi contemporanei ed aveva il coraggio di trarne le conseguenze. Apologeta del “mondo di ieri”, per usare il titolo del suo capolavoro, lo studioso non tollerava la barbarie in nessuna delle forme che si manifestava ed era invece incline ad esaltare i rari soggetti capaci di darsi un destino e di viverlo fino in fondo.
I saggi che per la prima volta vengono pubblicati in Italia hanno tutti questa valenza. E rivelano risvolti interessanti o poco noti di vite straordinarie in bilico tra l’ammirazione e la denigrazione, sempre comunque esemplari a loro modo ed in grado perciò di vincere l’indifferenza.
Amerigo Vespucci, accende l’interesse di Zweig su un particolare davvero originale: la fortuna, non cercata da questo uomo dimesso e per niente avido di ricchezze, titoli, prebende, riconoscimenti, nell’aver dato – non volendo – il suo nome al Nuovo Mondo, sbaragliando la concorrenza di esploratori che ritenevano di aver trovato le Indie e inconsapevoli di aver scoperto l’Occidente estremo.
La storia di Vespucci è davvero un romanzo; ancor di più lo è la paternità che gli è piovuta addosso, se vogliamo almeno esagerata, dal momento che come poi sarebbe stato acclarato si fermò in Brasile e, dunque, nella migliore delle ipotesi, il nome di America non avrebbe dovuto estendersi a tutto il Continente. Ma, come si sa, la diplomazia, gli intrighi di potere, la bramosia di gloria, estranei peraltro al viaggiatore, fecero premio sulla realtà e così, grazie ad uno smilzo libretto di Vespucci sulle terre da lui scoperte, circolato nelle cancellerie e nelle corti europee e dedicato dall’Imperatore Massimiliano d’Austria, l’esploratore venne investito del titolo che darebbe diventato davvero universale.
Un “destino”, il suo, davvero singolare. Non cercato, ma accettato. Comunque meritato. Scrive Zweig: “L’America non deve vergognarsi del suo nome di battesimo. È il nome di un uomo retto e coraggioso, che a cinquant’anni osò ancora varcare l’ignoto Oceano per tre volte… E’ forse addirittura il nome di un uomo qualunque, il nome di un uomo dell’anno ima schiera dei coraggiosi, un nome più adatto a un paese democratico, che non a quello di re e conquistadores è sicuramente più giusto, se mai l’America si fosse chiamata Indie Occidentali o Nuova Inghilterra o Nuova Spagna o Terra della Santa Croce. Non è stata la volontà di un un uomo ad affidare all’immortalità questo nome mortale; fu la volontà del Fato, che ha sempre ragione, anche laddove commette, apparentemente, un’ingiustizia. Dobbiamo adattarci a quel che ci comanda questa volontà superiore”.
Chi al destino davvero non si oppose fu Friedrich Nietzsche che dell’ amor fati fece un caposaldo della sua filosofia e della sua stessa esistenza. Zweig, con rara sensibilità, tratteggia in due saggi (ma più che saggi sono prove di un lirismo commovente) alcuni momenti dell’ultimo Nietzsche. Quello segnato dal rapporto con l’amico Franz Overbeck che letteralmente lo prelevò a Torino, in seguito alla “catastrofe” del gennaio 1889, e quello con la madre, dolcissima e ardente d’amore per quel figlio giacente in un letto senza più fiamma nel cuore né intelligenza da donare. In questi due scritti Zweig raggiunge vertici narrativi che raramente sono stati toccati. Impossibile riassumerli, bisogna leggerli. Sono, entrambi gli episodi, quello amicale e quello materno, “miracoli della forza d’amore” di cui il devastatore della morale borghese si è nutrito, forse senza capirli, ma certamente sentirli, negli ultimi anni della sua vita che finì a Weimar il 25 agosto 1900, una fine lunghissima cominciata nell’inverno torinese nel dicembre di dodici anni prima.
E Proust? Cosa dire del Proust di Zweig? L’uomo ricco, brillante, snob, capace di richiamare la Parigi che contava attorno a lui, ammalato e poi solo dopo la morte della madre che tra sofferenze indicibile compone dieci volumi della Recherche ?Quando morì sul suo comodino, venne trovato un foglietto sporcato dai farmaci, con gli appunti per un altro volume che avrebbe richiesto anni di lavoro, mentre gli toccavano ancora soltanto pochi minuti di vita: “Così Marcel Proust dette uno schiaffo alla morte: l’ultimo magnifico gesto dell’artista, che vince la paura della morte, spiandola”, come aveva fatto con quella società che lo affascinava e lo annoiava, lo esaltava e l’atterriva, la conquistava e l’abbandonava. Destino di un genio.
E geniali, straordinari, inimitabili fuori o le storie di Tolstoj al tramonto, di Lord Byron caduto per una causa che apparentemente gli era estranea, di Beatrice Cenci tra verità e leggenda, di Verlaine e Philippe Daudet…
Soltanto il genio unito alla sensibilità di Zweig poteva dettare inarrivabili parole per narrare destini tanto distanti eppure così vicini. Così vicini al suo, tragico, ma quanto “umano, troppo umano”, compiutosi lontano dalla Vecchia Europa, nell’angolo più riposto di quel Mundus Novus di Vespucci dove si suicidò, con un’overdose di Veronal, abbracciato alla sua seconda moglie che scelse la stessa sorte. Ad Alfred Altman, il giorno prima, aveva scritto “Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai”. Accanto ai corpi fu trovato un biglietto d’addio in portoghese: “Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba! Io che sono troppo impaziente, li precedo”. Zweig si dato un destino imitando gli immortali che il destino lo ebbero in dote.
STEFAN ZWEIG, Uomini e destini, Piano B, pp.160, 15,00 euro