Voltaire, il filosofo della tolleranza tornato di moda dopo le stragi di Parigi

Un ritratto di Voltaire

ROMA – Prima di essere tutti Charlie, siamo stati tutti Voltaire. Non a caso nelle librerie di Francia, all’indomani delle stragi di Parigi, sta andando a ruba il suo Trattato sulla tolleranza, quel meraviglioso manifesto di libertà scritto quando la violenza, la diffidenza, la paura e l’abuso regnavano in una Francia dilaniata da lotte fratricide tra cattolici e protestanti.

In queste due settimane di “elaborazione collettiva del lutto”, dopo gli attentati parigini, Voltaire è stato menzionato, ricordato, saccheggiato, rimaneggiato, sbandierato contro l’odio bieco di ogni fondamentalismo, non per forza di matrice islamica. A partire da quell’accorato (e ormai inflazionato) “disapprovo quel che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a esprimerlo”.

Ma chi era esattamente Voltaire? Il suo vero nome era François-Marie Arouet e fu un filosofo, scrittore, drammaturgo, storico ed enciclopedista francese. E’ considerato uno dei padri dell’illuminismo francese: il fulcro del suo pensiero è appunto la libertà religiosa, poi estesa a libertà d’espressione tout court.

Con l’illuminismo nacque la civiltà moderna, in opposizione all’oscurantismo medievale. Un movimento filosofico e scientifico sorto ancor prima in Inghilterra con un altro alfiere della tolleranza, John Locke, e che poi si diffuse in Francia, grazie a Voltaire e agli autori dell’Enciclopedia D’Alembert e Diderot. L’illuminismo portò in Europa idee di libertà, giustizia e solidarietà tra i popoli.

Di qui l’attualità della lezione voltairiana, attraverso la quale i francesi tentano oggi di riappropriarsi delle loro radici. La tolleranza, secondo Voltaire, era (ed è) la madre di tutte le virtù, una condizione imprescindibile, senza la quale è impossibile la convivenza civile e pacifica tra gli esseri umani. La tolleranza però finisce laddove incontra l’intolleranza altrui. Perché il suo contrario è il fanatismo che Voltaire definiva come “una malattia quasi incurabile”.

Nel suo Dizionario filosofico scriverà:

“Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio alla febbre, come le furie alla collera. Chi ha delle estasi, delle visioni, chi scambia i sogni per la realtà, e le immaginazioni per profezie, è un entusiasta; chi sostiene la propria follia con l’omicidio è un fanatico”.

La tolleranza però non è neppure mera indifferenza, ma la sopportazione di ciò che non ci piace: essere tolleranti non ci impedisce di formulare critiche ragionate e non ci obbliga a sottacere le nostre opinioni per non “ferire” chi la pensa in modo differente.

Ai francesi Voltaire chiedeva di considerare tutti gli uomini come fratelli:

“Mio fratello il turco? Mio fratello il cinese? L’ebreo? Il siamese? Sì, senza dubbio. Non siamo tutti figli delle stesso padre e creature dello stesso Dio?”.

Facendo propria l’agape (o caritas cristiana) intesa come amore fraterno e disinteressato che Voltaire sbandierava contro l’Infame, l’innominato nemico che il più delle volte coincideva con i gesuiti, all’epoca predicatori della dottrina reazionaria. Oggi l’Infame non è certo l’Islam, come non lo era il Cristianesimo per Voltaire. L’Infame è chi imbraccia un kalashnikov per vendicare una presunta offesa o il fanatico che pretende di far tacere i propri dubbi chiudendo la bocca e mettendo le manette agli altri. Lo diceva pure Nietzsche, “il fanatismo è l’unica forza di volontà di cui sono capaci i deboli”.

Voltaire non era certo un campione di diplomazia. Tutt’altro: l’umorismo, l’ironia, la satira, il sarcasmo, furono le sue armi più affilate contro il fanatismo superstizioso. Prima ancora del Trattato sulla Tolleranza, esemplare fu la lezione di Candido, ovvero l’ottimismo, romanzo satirico in cui si faceva beffe delle certezze della metafisica, quell’oscura branca della filosofia che si interrogava sulla trascendenza dell’Essere, cioè sull’esistenza di Dio. Nulla di diverso da quanto hanno fatto, secoli dopo, i vignettisti di Charlie Hebdo.

La tolleranza, lo ripetiamo con Voltaire, è la capacità di sopportare anche ciò che si disapprova. Ma che significato acquista oggi un’idea tanto seducente e potente? E fino a che punto è possibile accogliere tutto e tutti, in nome della tolleranza? Se lo domandano in molti, se lo chiedono i francesi, cittadini della patria europea del multiculturalismo. Se lo è chiesto Michela Marzano sul quotidiano la Repubblica, affidandosi al pensiero di un altro grande filosofo, scomparso circa un decennio fa:

“Per Bernard Williams, la tolleranza è al tempo stesso «necessaria» e «impossibile». È necessario tollerarsi a vicenda se si vuole organizzare il vivere-insieme quando si hanno opinioni morali, politiche e religiose differenti. Ma è anche impossibile essere fino in fondo tolleranti con gli altri – come ammette chiunque sia del tutto sincero con sé stesso – quando gli altri proclamano idee e valori che ci risultano intollerabili, quando difendono idee che riteniamo sbagliate, quando esprimono opinioni che consideriamo infondate”.

Ecco perché la tolleranza esige una cornice condivisa di istituzioni che tutti devono inderogabilmente rispettare: chi le nega o le avversa nega anche il proprio diritto a essere tollerato. 

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Daniela Lauria