ROMA – Il narcisismo, l’amore per due donne contemporaneamente, la scelta di votare per la monarchia, la direzione di un casinò, i libri e i primi passi nel giornalismo con Ernesto Rossi e Arrigo Benedetti: La vita di Eugenio Scalfari attravero un’intervista, quella che Antonio Gnoli ha fatto al fondatore di Repubblica.
L’occasione è l’uscita di un “Meridiano”, “La passione dell’etica”, in cui sono raccolte le opere principali e alcuni articoli di Scalfari, oltre ad un “Racconto autobiografico” scritto per l’occasione. Ma lui chiarisce: “Eviterei il trionfalismo, l’imbalsamazione precoce. È un’opera che ricomprende la mia doppia vita: scrittore e giornalista. E le due cose solo in parte hanno coinciso. Non è un caso che non abbia mai scritto un libro sul giornalismo”.
Per spiegare il suo passato più recente, Scalfari parla di quello più lontano, della propria “sindrome da figlio unico”. “Mio padre era una persona colta. Era stato legionario fiumano, sedotto dalle imprese del Vate. Diventò tardi antifascista, ma fu immediatamente antimussoliniano. Voleva molto bene a mia madre che, tra l’altro, era bellissima. Ma al tempo stesso a mio padre piacevano le donne, le carte e tirare tardi. A volte non rientrava a casa o rientrava tardissimo, alle tre o alle quattro del mattino”.
In questa situazione Scalfari bambino vivava “in un’ansia” che lo “attanagliava. Avevo sette anni e dormivo in una cameretta che confinava con la loro stanza da letto. Ricordo che finché non sentivo mio padre rientrare non riuscivo a prendere sonno. E se tutto andava bene, se mia madre non si svegliava, ero felice. Ma se cominciavano a litigare ero preso dal terrore che quella tenda, che io avevo immaginato fosse la mia famiglia, venisse spazzata via”.
“Pensavo al rapporto con i miei genitori come a un triangolo di cui feci di tutto per diventare il vertice. Mi resi conto, cioè, che la mia obbedienza alle loro aspettative era il modo per tenerli uniti. Avere un potere su di loro. Per questo dovevo essere il primo della classe, e non comportarmi come un monello”. E “la reazione a quella sindrome è stato il primo insegnamento su come provare a mettere ordine in una situazione difficile. Compresi che il potere implica attrazione, responsabilità e sacrificio”.
Scalfari racconta del padre avvocato che ad un certo punto decise di trasferirsi a Sanremo a dirigere il casinò. All’epoca lui aveva poco più di vent’anni. “La guerra era finita. Alcune città chiesero al governo di poter aprire provvisoriamente dei casinò. Mio padre fu tra quelli che ebbero l’incarico di occuparsene. Organizzò le case da gioco, scelse il personale. Non riuscì a trovare un direttore per il casinò di Chianciano. Fu a quel punto che io mi proposi”.
Era il 1946. “Quei pochi mesi che passai a Chianciano furono molto divertenti. Fu una vacanza che terminò quando decisi di intraprendere un’occupazione un po’ più seria. Ero laureato a pieni voti in economia e cominciai a fare pratica legale nello studio di Piero Sette che era stato mio professore. Poi, l’anno dopo, accettai un’offerta dalla Bnl con la prospettiva, nel giro di qualche anno, di diventare dirigente… Restava il fatto che la mia vera passione era scrivere. Infatti cominciai la mia collaborazione al Mondo nel ’49”.
Nel frattempo nel 1946 c’era stato il Referendum su Monarchia o Repubblica. Scalfari votò per la monarchia, “per via di Benedetto Croce: un liberale che si dichiarò contrario alla Repubblica”. A poco servì il tentativo di convincerlo a votare per la repubblica fatto da Italo Calvino. “Mi scrisse chiedendomi di votare per la Repubblica. Pur sapendo che la mia scelta monarchica dipendeva dal fatto che se avesse vinto la Repubblica, l’Italia sarebbe diventato un paese moderato e cattolico. Però, aggiunse, c’è il futuro. Gli risposi che, sapendolo comunista, non gli avrei mai chiesto di votare per la monarchia. E dissi anche che se avesse vinto la Repubblica, un minuto dopo sarei diventato un repubblicano”.
Se Croce influì sulle sue scelte politiche, nel giornalismo due furono i suoi maestri: Ernesto Rossi e Arrigo Benedetti. Rossi “diceva: se scrivi di economia e vuoi farti leggere sappi che devi essere molto polemico, devi avere un avversario, qualcuno cui togliere la pelle”. Arrigo Benedetti “i miei primi articoli li cestinò. Devi essere chiaro, e non pensoso quando scrivi, mi disse”.
Con Benedetti ci fu poi lo scontro sulla Guerra dei Sei Giorni. “Quel conflitto lampo era appena finito che lui sposò in pieno le ragioni di Israele. Gli feci notare che oltre al fatto che era giusto difendere lo Stato ebraico, c’era anche una questione palestinese. In realtà, a deteriorare il nostro rapporto contribuirono anche fatti personali e la sua voglia, ormai intempestiva, di riprendersi la direzione”.
Dopo, nel 1976, venne la fondazione di Repubblica, lasciata nel 1996: “C’è un momento in cui devi fare un passo indietro. La mia preoccupazione era capire se la nave che avevo costruito avrebbe retto dopo di me. E devo dire che ha retto e regge benissimo”.
Nessun pentimento, quindi: “Mi trovo benissimo nel ruolo che svolgo. Ho dedicato molto più tempo alle mie letture e ai miei libri”. Come “La ruga sulla fronte”, di cui è protagonista Gianni Agnelli: “un uomo seducente. Il più seducente di un’epoca che si è chiusa”. Un “narciso” come lui. “Sono un narciso di prim’ordine. E consapevole di esserlo: il narciso consapevole sa che affinché gli altri ti amino tu li devi amare”.
Un narciso che però nella vita ha amato due donne contemporaneamente, e a loro ha scritto una dedica esplicita: “Erano caratteri molto diversi che, almeno ai miei occhi, si completavano”. Due donne amate ma che soffrivano per la loro convivenza nell’amore di un uomo. Ma che restano celebrate in una dedica che altro non è che una vera edica d’amore: “Una mi ha insegnato a non farmi corrompere dal potere, l’altra a non disperare della rivoluzione”.