Marco Benedetto nel 1984 assunse la carica di amministratore delegato dell’Editoriale L’Espresso e di Finegil, diventando poi dal 1992 amministratore delegato di tutto il gruppo editoriale di Carlo De Benedetti fino al settembre 2008.
Nei suoi 24 anni di regno il mantra di Marco Benedetto fu sempre lo stesso: niente ospitate in tv dei giornalisti di Repubblica, dell’Espresso o dei quotidiani locali Finegil, perché la televisione è il nostro nemico numero uno.
Una lezione che aveva imparato da Giorgio Fattori, dal 1978 direttore della Stampa e poi, dal 1986 al 1992, presidente della Rcs (editore del Corriere della Sera): “La tv è il nemico”, ripeteva Fattori, “è nostro concorrente sia sul piano delle audience, sia su quello della pubblicità”.
Qualcuno potrebbe pensare che queste sono frasi del secolo scorso, di un’epoca che non c’è più, lontane anni luce dalla realtà del 2020. Tuttavia, se sul fronte delle audience magari la concorrenza tra tv e carta stampata in effetti ha perso di senso, resta in piedi il discorso dal lato pubblicitario.
La televisione rimane il mezzo leader del mercato pubblicitario nobile, dei grandi investimenti. Ed è la tv, come spiega Benedetto, che anche oggi, nel 2020, fissa il livello del prezzo della pubblicità, da cui poi derivano tutti gli altri tariffari. Il gruppo Armani ha un budget di 100, che di solito investe in gran parte sulla carta stampata. Ma se il prezzo della pubblicità in tv scende a livelli ritenuti convenienti, ecco che Armani può preferire la tv.
Allora, in base al ragionamento di Benedetto, un editore di carta stampata non può andare ad arricchire i contenuti di un diretto concorrente pubblicitario (la tv) cedendo gratuitamente la propria manodopera (i giornalisti di punta). E assumendosi inoltre tutti i rischi. Se un giornalista cade in motorino mentre va negli studi di Rai, Mediaset o La7, lo stipendio glielo continuerà a pagare l’editore del quotidiano.
Al limite, il broadcaster televisivo che vuole il contributo del giornalista di Repubblica dovrebbe pagare a Repubblica il costo orario aziendale, o comunque un compenso in denaro.
La tv, Rai o Mediaset o La7, paghi non i giornalisti ma i giornali
“Meno interessante la proposta fatta da Massimo Donelli sulle pagine di ItaliaOggi. Ovvero quella delle tv che dovrebbero acquistare abbonamenti del giornale in cui lavora la firma che ospitano. Per poi donare quegli abbonamenti a studenti del liceo da avviare alla lettura. E lo sa perché? Perché regalare”, dice Benedetto, “abbassa il valore delle cose”.
Fattori citava sempre il vecchio Angelo Rizzoli, il grande, secondo cui le copie regalate sono copie perse due volte: perché non le pagano, e perché poi non le comprano. Quando c’erano le operazioni dei quotidiani in classe, io le ritenevo pura follia. Regali i giornali nelle scuole e poi i professori si portano a casa il giornale. E quindi non lo comprano. E anche i ragazzi si portano a casa il giornale, e quindi il loro papà non lo compra più.
“Aveva ragione Rizzoli, sono copie perse due volte”.
Tornando alla questione dei giornalisti che vanno ospiti in tv, durante i 24 anni di Benedetto al gruppo Espresso ci sono state poche eccezioni. Ovviamente il fondatore Eugenio Scalfari o Mario Pirani, che comunque erano già in pensione. E poi, ogni tanto, Antonio Padellaro, Mino Fuccillo, Federico Geremicca o Curzio Maltese.
Di solito, ogni volta che aprivano bocca, con quell’accento romano o meridionale (tranne Maltese) e con le loro idee molto sinistre, facevano perdere un po’ di copie. Memorabile l’umiliazione inflitta in diretta da Berlusconi e Alberto Rusconi fu Edilio a Scalfari a fine anni ’90.
Ma, in generale, la prassi era: il giornalista, con vincolo di esclusiva incluso nel superminimo, chiedeva il permesso al direttore di Repubblica, Ezio Mauro. Il quale girava la richiesta a Benedetto. Che rispondeva no per 99 volte su 100. Una volta Paolo Garimberti, amico personale da trent’anni di Benedetto, andò in Rai a commentare i Mondiali di sci senza chiedere autorizzazioni. E, al rientro a Repubblica, per un mese gli venne vietato di condurre i suoi spazi su Repubblica tv. Ora non sono più amici, ma Benedetto se ne fa una ragione: l’interesse del giornale deve venire anche sopra l’amicizia.
Cedere i giornalisti alla tv, secondo Benedetto, comporta l’assunzione di troppi rischi per il datore di lavoro. Magari la firma si mette in aspettativa, va a condurre un programma televisivo che si rivela un flop, viene cacciato dalla tv, rientra in redazione.
Ma nel frattempo ritiene di essere diventato una star. E non lo puoi più mandare a seguire le cronache di un gatto arrampicato su un albero a Torvaianica. O un gatto su un albero nella campagna di Vercelli. Come fece Giulio De Benedetti con Giovanni Giovannini. Reduce da un viaggio trionfale di distribuzione di sussidi di Specchio dei Tempi della Stampa agli indiani affamati negli anni ’60. I giornalisti, inoltre, sono sì pagati meno di prima, ma sono comunque sempre pagati bene, e, quelli col contratto Fieg dei quotidiani, hanno un costo aziendale minimo di 50 mila euro all’anno.
Se sono assunti a tempo indeterminato, l’editore del quotidiano deve continuarli a pagare sempre, a prescindere da ciò che accade. Rai, Mediaset o La7, invece, possono dare un gettone di presenza, spesso piccolo, ma poi staccare la spina quando vogliono. Poi c’è anche un fattore riposo. Perché il giornalista, anche se va in tv fuori dall’orario di lavoro, sottrae quel tempo al riposo. E quindi torna in redazione stanco e meno efficiente. Magari si ammala, “e lo devo pagare io”, dice Benedetto, “non l’emittente tv”.
Infine, da smontare la leggenda in base alla quale un giornalista, quando va in tv, promuove il quotidiano in cui lavora, accrescendo così le copie vendute. Anzi: ogni volta che un giornalista di Repubblica andava in tv negli anni 90, erano 10 mila copie perse il giorno dopo. Pure Mario Calabresi, sempre in tv ai tempi della sua direzione a Repubblica, perse molte più copie del suo predecessore Ezio Mauro, che in tv ci andò sempre molto poco.
(da Italia Oggi)