ROMA – “Non condivido le tue idee ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa esprimerle”, lo diceva Voltaire verso la fine del ‘700, lo ricorda oggi Giovanni Valentini su Repubblica, a proposito del caso Sallusti. Un caso in cui interviene anche il Quirinale che in una nota dice: ”Il presidente naturalmente segue il caso e si riserva di acquisire tutti gli elementi utili di valutazione”.
Un caso, scrive Valentini, che nella sua aberrazione ripropone nodi mai sciolti del rapporto tra giustizia e informazione. Più caustico l’occhiello della prima pagina del Giornale di venerdì, che ne dava notizia: un caso di “giustizia malata”. Se, infatti, mercoledì 26 settembre, la Cassazione dovesse confermare la condanna per diffamazione, il direttore del Giornale, potrebbe finire in carcere e restarci per 14 mesi per un articolo scritto da altri. Ecco allora che dopo le attestazioni di solidarietà di molti esponenti del centrodestra, la difesa si fa a tutto campo: non solo Valentini ma anche Marco Travaglio chiede di “salvare il soldato Sallusti”.
Nell’editoriale di sabato del Fatto Quotidiano, Travaglio, acerrimo nemico di Sallusti e della linea del suo giornale, non ha esitato a mettere da parte le divergenze d’opinioni e a prendere le difese di un collega, come obbligo di categoria, ma soprattutto di principio.
Perché, lo spiega bene anche Valentini, “non è solo malata una giustizia in grado di produrre una tale mostruosità. È una giustizia che contraddice e nega se stessa, la propria legittimazione democratica, la propria autorevolezza e credibilità”. Perché quella giustizia sta negando il diritto di espressione a vantaggio dell’onore e della reputazione altrui. E questo è un bene. Ma lo fa con “evidente sproporzione tra l’offesa e la difesa”.
Scrive Travaglio:
“Si dirà: i giornalisti sono cittadini come gli altri (eccetto i politici, si capisce) e non c’è nulla di strano se, in caso di condanna, la scontano. Vero: ma questo dovrebbe valere per delitti dolosi. Cioè per reati gravi e intenzionali. Sallusti è stato condannato per aver diffamato su Libero un giudice tutelare di Torino, Giuseppe Cocilovo, in un articolo del 2007 scritto da un altro sotto pseudonimo, ma di cui gli è stato attribuito l'”omesso controllo” in veste di direttore responsabile. Non so cosa fosse scritto in quell’articolo, ma non dubito che fosse diffamatorio, vista la normale linea Sallusti. Però ora non m’interessa, perché ciò che conta è il principio”.
E se Sallusti commenta così la condanna: “Ho paura di vivere in un paese dove ci si permette di arrestare le idee, di metterle in carcere”. Gli dà ragione Valentini che spiega come sia inammissibile in un paese democratico, “nel caso di un reato d’opinione, cioè di un reato che si realizza attraverso la manifestazione di una tesi o di un giudizio, si arrivi a sanzionare tali comportamenti addirittura con il carcere. C’è un’evidente sproporzione tra l’offesa e la difesa, tra il danno prodotto da un’azione diffamatoria e la privazione ancorché temporanea della libertà personale. Oltre a ripristinare l’onore e la reputazione altrui, la “giustizia giusta” è tenuta a punire il responsabile con rigore ed equità, senza spirito di vendetta o di persecuzione”.
Vendetta no, ma rivincita sì, quando Travaglio non può fare a meno di ricordare, di quella volta in cui toccò a lui, quella volta di Previti..
Personalmente, sono incappato quattro anni fa in un incidente simile: nel 2001 avevo sintetizzato, in un articolo troppo breve sull’E s p re s s o , un lunghissimo verbale che citava anche Previti. Questi mi querelò. Il Tribunale di Roma condannò me a 8 mesi di carcere con la condizionale e la direttrice Daniela Hamaui a 4, più 20mila euro di risarcimento (sentenza spazzata via dalla Corte d’appello, che la ridusse a due multe di 1.000 e di 800 euro, poi prescritte). Naturalmente i giornali di B., su cui scriveva Sallusti, presentarono la notizia come la prova che ero un delinquente matricolato e non fecero alcuna campagna contro il carcere ai giornalisti. Ora che tocca a Sallusti, la fanno eccome. Ma, ripeto, contano i princìpi. Che non si possono cambiare ogni mattina come le camicie, gli slip e i calzini. Il principio, peraltro ovvio in tutti i paesi civili, è che nessun giornalista può rischiare in prima battuta il carcere (anche se finto, come da noi) per quello che scrive. Nemmeno se è sbagliato o impreciso, e neanche se è dolosamente diffamatorio (come purtroppo sono le campagne degli house organ berlusconiani contro chiunque si metta sulla strada di B., anzi contro chiunque indossi una toga).