Si avvicina la sentenza della Corte di Cassazione sul Lodo Mondadori e il risarcimento di centinaia di milioni di euro che Berlusconi, attraverso la sua Fininvest, dovrà versare alla Cir di Carlo De Benedetti.
Disponendo entrambi i contendenti di un certo numero di bocche di fuoco mediatiche, è stato possibile assistere a alcune bordate preliminari. Al fuoco ha dato il via la richiesta del procuratore generale della Cassazione di condannare Berlusconi ma con uno sconticino.
Berlusconi ha affidato la sua infelicità al Giornale, da lui passato al fratello Paolo Berlusconi quando la legge gli impediva di conservarne la proprietà. Berlusconi è certamente rassegnato: tutto gli va storto in questo momento e uno superstizioso come lui sa leggere gli auspici negativi.
Così l’articolo che Claudio Borghi Aquilini, docente di economia alla Università Cattolica di Milano, ha scritto per il Giornale ha il suono di un grido disperato. Se uno non ricordasse che la vittima è un signore che ha portato la corruzione fin nel tempio della Giustizia, verrebbero da fare molte riflessioni
Ricorda Claudio Borghi Aquilini che la cifra cui siamo arrivati, in questa vertigine di milioni, è di 470, calcolati dopo lo sconto del Procuratore generale, rispetto ai 560 milioni di euro previsti dalla sentenza di appello:
“Il tutto partendo dalla sentenza di primo grado dove il giudice, senza nemmeno domandare una perizia, stabilì il risarcimento addirittura in 750 milioni. Ma come saltano fuori queste cifre?
Claudio Borghi Aquilini parte dal fatto che
“il valore di Borsa dell’intera Mondadori è pari a 220 milioni e il valore della quota di proprietà Fininvest è di soli 115 milioni. In pratica solo i ricalcoli dei diversi tribunali «valgono »quasi tre volte l’intero oggetto del contendere e la prima condanna di risarcimento era pari a sette volte tanto. Tutto questo senza contare che se le cose fossero andate diversamente la Mondadori avrebbe dovuto essere pagata, non stiamo parlando di un regalo.
“A monte di tutto va ricordato che l’origine della richiesta di risarcimento sta nella condanna definitiva di Cesare Previti per corruzione di uno dei tre giudici che stabilirono i criteri di spartizione del gruppo editoriale Mondadori”.
Qui c’è un errore di fatto, perché la corruzione non riguardò la spartizione della Mondadori, ma la validità di una firma messa su un contratto da Cristina Mondadori e dai suoi figli. Ma poco cambia nella struttura del ragionamento, che così prosegue:
” Tutto parte dal concetto di «perdita di chance », vale a dire che persino il giudice di primo grado scrisse che «è impossibile sapere cosa avrebbe deciso un collegio incorrotto » e quindi la sentenza si basa su probabilità e possibilità, pure ipotesi che vennero quantificate in una somma poi ridotta all’ 80% proprio per la chance di cui sopra. Ma anche riscrivendo la storia con i se è possibile ignorare come questa storia sia andata realmente a finire?
“L’altra metà della «mela» oggetto del lodo, quella assegnata a De Benedetti, ovvero il Gruppo Editoriale l’Espresso, vale oggi per la sua quota di pertinenza circa 170 milioni. È mai possibile che una supposta differenza iniziale di due valutazioni, in pratica un semplice conguaglio, oggi venga quantificato come danno per una cifra quasi doppia al valore totale dei due asset spartiti? In pratica si pensa di assegnare un danno, rivalutato dagli interessi, da riconoscersi a uno per essere riuscito ad acquistare solo una casa invece di due, che poi però sarebbero state distrutte entrambe dal terremoto. Più che un danno potrebbe essere visto come un colpo di fortuna”.
A manovrare l’opposto obice è Liana Milella su Repubblica:
“Una sentenza comprata (il lodo Mondadori). Il record di 167 pagine scritte in sole 24 ore, un unicum nella storia giudiziaria italiana, da un giudice corrotto (Vittorio Metta). Il versamento di 425 milioni di lire che il 14 febbraio 1991 dai conti Fininvest, per il tramite della rete parallela All Iberian, attraverso Cesare Previti, arrivano a Metta venti giorni dopo la sentenza. Un Berlusconi, ovviamente il mandante dell’operazione, prescritto nel 2001 grazie alle attenuanti generiche concesse dai giudici di Milano perché il “privato corruttore”, per un caso, non figura nel reato di corruzione in atti giudiziari riformato nel ’90, e la correzione del ’92, in quanto sfavorevole all’imputato, risulta purtroppo tardiva rispetto ai fatti. Una guerra giudiziaria che si dipana per vent’anni e contrappone Silvio Berlusconi a Carlo De Benedetti.
“Sin dall’inizio quella di Berlusconi fu una gara sleale. Subito lo sgambetto, aver convinto gli eredi della Mondadori a passare dalla parte di De Benedetti alla sua. Poi la corruzione del giudice Metta, che è ormai codificata in una sentenza della Cassazione — 13 luglio 2007 — giunta dopo un doppio processo d’appello. Ormai non ci sono più buchi oscuri nella guerra di Segrate che da una parte, quella di Berlusconi, fu giocata con carte taroccate. Il processo penale prima, quello civile poi — la famosa sentenza Mesiano del 3 ottobre 2009 che chiude il primo grado, la sentenza d’appello del 9 luglio 2011, prima 750 milioni di risarcimento, poi ridotti a 564 — confermano, oltre ogni ragionevole dubbio, da che parte sta la verità. Sicuramente non da quella di Berlusconi.
“È giusto il fatto concreto che giovedì in Cassazione, nell’udienza sul caso Mondadori che chiude la querelle civile, ha citato il sostituto procuratore generale Pasquale Fimiani quando ha definito da sottoscrivere, salvo alcune correzioni nella motivazione, la sentenza d’appello del risarcimento. Quella sentenza comprata, con il pesante carico simbolico di un imprenditore che viola le regole della correttezza e della trasparenza, non a caso citate da Fimiani, per affidarsi al sotterfugio e alla corruzione sapendosi perdente in partenza, è la grande madre dell’imbroglio sulla Mondadori.
“Ormai non ci sono più punti oscuri. La storia è lì, squadernata nelle carte giudiziarie. Parte con un primo colpo di mano, gli eredi Mondadori avevano garantito a De Benedetti la cessione delle quote, ma Berlusconi li convince a passare dalla sua parte. Tre arbitri (Pratis, Irti, Rescigno), il 21 giugno 1990, danno ragione a De Benedetti. Secondo colpo di mano: Berlusconi ricorre in appello e a Roma vince dopo aver corrotto, per la mano di Previti, il giudice Metta. Si riprende la Mondadori. Sei anni dopo la macchina della corruzione dei giudici s’inceppa. Indaga il pm Ilda Boccassini. I processi Imi-Sir, Lodo Mondadori e Sme non lasciano ombre. Berlusconi cerca di uscirne a colpi di leggine, ma non ci riesce. Previti è costretto a lasciare il Parlamento. Ora il Cavaliere cerca ancora di imbrogliare le carte”.
Ora affidiamoci alla cronaca scritta da Claudio Ferrarella sul Corriere della Sera:
“«Il lodo Mondadori? Il danno l’ho subito io». Silvio Berlusconi commenta così l’inizio della discussione in Cassazione sul risarcimento civile alla Cir di Carlo De Benedetti. E subito l’ingegnere replica: «La consuetudine di Silvio Berlusconi di manipolare la verità va di pari passo con la sua spudoratezza».
Ma di che entità si discute? I 750 milioni in Tribunale nel 2009 sono diventati 564 in appello nel 2011. In Cassazione il Pg ha chiesto di rivalutare la motivazione su un altro possibile 15% in meno.
Il 15% in ballo verte sulla «valutazione equitativa del danno», evocata dall’Appello nel 2011 perché «l’equità sopperisce all’impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno».
I giudici assumevano infatti che «l’illecita (perché realizzata con la corruzione di Metta) alterazione dell’equilibrio negoziale fra le parti determinò una decisa inversione dei rapporti di forza, mettendo Cir “con le spalle al muro”» nella transazione del 1991; ma ammettevano fosse «assai difficile, se non impossibile, stabilire ora in quale precisa misura» Cir avrebbe strappato di più se il lodo ad essa favorevole non fosse stato annullato grazie a quella che anni dopo si sarebbe rivelata una tangente della controparte al giudice.
«L’impostazione più prudente e realistica — scrisse la Corte milanese — pare porti» a ritenere «equo il 15%» del danno invece calcolabile. E ora è la tenuta di questo argomento a essere discussa in Cassazione”.