Giuseppe Turani rivendica “io c’ero” alla fondazione di Repubblica e smentisce Carlo De Benedetti, che si è incautamente e impropriamente iscritto fra i fondatori. Nel sequel della polemica fra grandi vecchi trasformatisi in litiganti bisbetici e bizzosi, l’ultima parola finora l’ha detta Eugenio Scalfari, che smentisce l’auto attribuzione da parte di De Benedetti della qualifica di fondatore di repubblica.
Scalfari lo fa su Repubblica, in una intervista con Francesco Merlo. Nel mettere i puntini sulle i, curiosamente, lo stesso Scalfari commette un grave errore storico, se di storia si può parlare, quando indica in se stesso, Carlo Caracciolo e Adriano Olivetti i fondatori dell’Espresso.
Solo per precisione, a fondare l’Espresso nel 1955 fu Arrigo Benedetti, che ne fu direttore fino al 1963. Lo coadiuvava il trentunenne Scalfari, di tre lustri più giovane di Benedetti. I soldi ce li mise Olivetti. Quando, 2 anni dopo, Olivetti dovette cedere il giornale, costretto dal Governo, passò la maggioranza delle azioni a Carlo Caracciolo, che quindi entra in scena solo nel 1957. Pacchetti di minoranza andarono a Benedetti e a Scalfari. Il pacchetto di Scalfari, trent’anni dopo, diventò la chiave per arrivare al controllo di Repubblica, come riferito più sotto.
Le verve polemica e un po’ anche l’età possono confondere. Nella intervista a Merlo, Scalfari sostiene la novità della autoproclamazione di De Benedetti a fondatore. In realtà c’è una prima volta, sul palco delle celebrazioni del quarantennale di Repubblica, condotte in perfetto stile sovietico con sgradevoli e vergognose obliterazioni, inclusa quella del sottoscritto. In quella occasione De Benedetti si inserì di soppiatto tra i fondatori, che per la storia furono Scalfari e Caracciolo per parte Espresso, Giorgio Mondadori e Mario Formenton per parte Mondadori. Nel clima festivo nessuno fece caso alla mitomania. Andavano tutti d’accordo e quello era il presidente, non scherziamo compagni. Ha dato i telefonini anche ai giornalisti che in 7 ore e un quarto l’unica uscita che fanno è per andare al bar, ha orchestrato un contratto di lavoro che mai si sarebbe dovuto fare, è la tessera numero uno…
Torniamo al 1976. Far partire Repubblica costò 3 miliardi di lire del 1976. Investirono a metà ciascuno Espresso e Mondadori. De Benedetti diede un contributo di 50 milioni, sempre di lire, “non suoi” ma della Unione Industriali di Torino, di cui era presidente. Un contributo di quelli che se ne davano tanti, in quegli anni, vedessi mai. Lo stesso De Benedetti, in studio da Lilli Gruber, ha riconosciuto che lui, al progetto non credeva affatto.
Si è ricreduto pochi anni dopo, verso l’80, quando l’Espresso rischiava di fallire. Caracciolo, infartuato, aveva lasciato l’azienda, poco più di una boita, all’epoca, indebitata per l’acquisto della concessionaria di pubblicità Manzoni. La scelta, giusta strategicamente, rischiava di rivelarsi esiziale per l’Espresso. Mondadori, guidata all’epoca da Mario Formenton, grande editore, ormai dimenticato e ricordato solo da una borsa di studio, destinato a uscire di scena in pochi anni per mano del destino crudele, stava sull’albero in attesa del collasso per papparsi con poca spesa l’altra metà di Repubblica.
De Benedetti, all’epoca era capo dell’Olivetti. Già nutriva mire sulla Mondadori, non solo come cassaforte che portava a Repubblica ma anche come gamba di un grande e geniale progetto che includeva Olivetti, Espresso, Repubblica e i quotidiani locali. Una visione che anticipava di 20 anni i vari Malone. Mancava la televisione. Ma lì la strada era sbarrata dall’odiato Berlusconi…Non è il Trono di Spade ma se risalite nel tempo e nella memoria potete capire tante cose.
Nell’articolo pubblicato anche su Uomini & Business, parto dall’ultima scorribanda di Carlo De Benedetti chez Gruber. Definisco “tutto sommato buona” la performance “dell’ingegner Carlo De Benedetti” e riconosco:
Di cose davvero serie ne ha dette due:
1. i 5 stelle sono una sciagura,
2. nonostante le delusioni voterò Pd.
Il resto sono pettegolezzi. Ha sostenuto, ad esempio, di aver avviato la fondazione di Repubblica, versando come presidente degli industriali torinesi 50 milioni di lire E è vero. Ma la vicenda è un po’ ridicola se si calcola che per l’avvio di Repubblica furono necessari 3 miliardi, e quelli non li mise lui. Anzi, è stato uno dei contributori più irrilevanti, con soldi peraltro non suoi, ma dell’Unione industriali di Torino.
Dove poi ha in effetti sbracato è quando ha detto che Scalfari (con il quale ha avuto di recente una polemica) deve stare zitto perché gli ha dato una paccata di miliardi (quattro volte tanto a Carlo Caracciolo).
Qualche maligno sostiene che proprio da lì nasce il grande gelo con Scalfari. De Benedetti aveva offerto a Scalfari 80 miliardi per la sua quota nell’Espresso, a sua volta detentore, come già detto, del 50% di Repubblica. A quel tempo, Caracciolo aveva poco più del 34% dell’Espresso, De Benedetti il 22, Scalfari il 14. Con la quota di Scalfari, De Benedetti sarebbe diventato il primo azionista dell’Espresso e, contando su una leva e una capacità finanziarie che Caracciolo nemmeno sognava, entro breve se ne sarebbe impadronito. Morto Formenton, la Mondadori sarebbe caduta ai suoi piedi e De Benedetti sarebbe diventato il più grande editore del secolo.
Scalfari puntò i piedi, leale a Caracciolo fino alla morte e oltre. Così De Benedetti dovette aspettare che il titolo Espresso salisse in Borsa a un livello tale che la quota di Scalfari valesse, in Borsa, 80 miliardi. Me nel procedere, il 50 per cento dell’Espresso salì a 450. Quella volta il conto lo pagò la Mondadori. Dopo la contesa con Berlusconi e la spartizione fra Berlusconi e De Benedetti imposta da Andreotti (una mega Mondadori come nella visione di De Benedetti, troppo vicina al Pci non andava proprio bene; ma nemmeno andava bene la stessa Mondadori con Repubblica, 16 quotidiani locali unita a Mediaset al servizio di Craxi o, peggio ancora, della futura Forza Italia. Così Andreotti calò la spada di Brenno).
Questa volta a pagare la Mondadori oltre mille miliardi per il 50 di Repubblica (450 miliardi) e tutto il resto del futuro Gruppo Espresso fu lo stesso Espresso, di cui De Benedetti in realtà deteneva il 50% del 50% del 50%. Se si fanno bene i conti, di soldi veri si parla del 12,5% (ecco perché alla fine, poco prima di morire, Caracciolo ricostituì una posizione del 12% che gli eredi preferirono frantumare). Ma come i grandi cercatori di petrolio o di diamanti se ne venivano nei pantaloni quando incontravano la vena giusta della Terra, così De Benedetti non è uno qualunque come noi, è un genio della finanza e per lui quei soldi erano il 100 per cento, non l’ottava parte.
Comunque sia, i miliardi li ha versati, è vero: ma in cambio si è preso la proprietà di Repubblica. Insomma, non ha fatto beneficienza: ha comprato un bene (Repubblica-Espresso), che Scalfari e Caracciolo gli hanno venduto. Bene che lui stesso ha corteggiato a lungo e sulla cui valutazione non ha mai avuto nulla da dire.
L’affare, all’epoca, venne concluso con ampia soddisfazione da ambo le parti. Al punto che Scalfari è rimasto direttore fino a quando ne ha avuto voglia e Caracciolo presidente della società editrice. In tutti quei lunghi anni, l’Ingegnere si è accontentato del suo ruolo di proprietario poco influente (i due fondatori facevano barriera).
Contraddicendo la sua impetuosa natura, che lo ha portato a alcuni clamorosi autogol (vale per tutti la vicenda della Sgb belga), De Benedetti resistette più o meno fuori dalla porta fin che Caracciolo superò gli 80 anni. Un po’ come uno che compra una casa ma aspetta 20 anni prima di andarci a abitare, per rispetto del vecchio inquilino.
Finalmente assunse la presidenza e da lì in poi non lo ha più fermato nessuno, mentre nella sua famiglia si dipanavano le puntate di una tragedia greca per fortuna senza sangue, di una Dinasty un po’ più contenuta ma senza esclusione di colpi.
Più interessante la parte finale, in cui ha parlato con amarezza della Repubblica di oggi (dove non ha più alcun ruolo, avendo ceduto la presidenza al figlio Marco), che, secondo lui, avrebbe perso di identità.
Un’affermazione sulla quale tutti possono concordare. E’ stato commesso un grande errore e a Repubblica non se ne sono accorti ancora oggi. Mentre nel Pd e a sinistra esplodeva il fenomeno Renzi, cioè la ricerca di una sinistra liberal-democratica, a Repubblica hanno scelto di stare dalla parte dei vecchi, cioè di Bersani e D’Alema. In un certo senso, così, si sono tagliati fuori dal nuovo che si stava muovendo. E poi hanno testardamente continuato (vanno avanti ancora oggi con i ridicoli articoli di Giannini, che sembrano scritti 25 anni fa).
Carlo De Benedetti, sempre parlando di Repubblica, ha detto di non essersi pentito e l’ha definito: un giornale che è sempre stato dalla parte giusta.
Ecco, dall’arrivo di Renzi in avanti, invece, è sempre stato dalla parte sbagliata. E quindi ha perso identità e copie, diventando quasi un oggetto inutile.
Quando si progettò Repubblica (in tutto eravamo in cinque), mai si pensò di rimanere indietro rispetto ai cambiamenti nella politica e nella società. Si voleva essere più avanti. Invece è accaduto il contrario.