FIRENZE – “Sopra tutto questo c’è l’evasione fiscale. L’imprenditore cinese che dichiara 17 mila euro e spedisce in Cina 1,89 milioni. Quello sconosciuto al fisco che invia oltre 800 mila euro. Ci sono evasioni di Iva, diritti doganali, imposte sul reddito e contributi previdenziali. Poi c’è Bank of China, controllata dalla Repubblica Popolare. Dalla sua sede milanese sono transitati 2,199 miliardi diretti verso Pechino senza nessuna segnalazione di attività anomala alle autorità italiane”. Gianluca Paolucci, su La Stampa, racconta così quella che potremmo definire la base pratica di 4.5 miliardi di euro che, dall’Italia, sono svaniti destinazione Pechino.
Stiamo parlando di una quantità di denaro pari al costo dell’abolizione della famigerata tassa sulla prima casa, un monte di denaro che limitare nella definizione di ‘evasione’ è inevitabilmente riduttivo, e una mole di euro che il fisco italiano non rivedrà mai, nonostante si sappia che fine ha fatto.
Soldi che sono finiti in Cina passando, una buona dose, da via Fabio Filzi 39/A, a Prato, nel cuore della Chinatown pratese. Un bugigattolo di 30 metri quadri con due vetrine in un pezzo d’Italia dove anche il kebabbaro ha l’insegna con gli ideogrammi. Da lì sono passati 1,077 miliardi di euro, in contanti e nell’arco di tre anni e mezzo, dei suddetti 4,5 miliardi andati, dal punto di vista del fisco, letteralmente in fumo. E lì c’era uno sportello, un ‘bancomat’ di una rete con ramificazioni tra la Toscana, Roma e Milano. Una rete che in termini giudiziari si è tradotta nel famoso giro di denaro, una quantità notevole di reati e 297 richieste di rinvio a giudizio tra persone fisiche e società. Compreso il colosso Bank of China, pubblico.
La tecnica della rete di sportelli era relativamente semplice, almeno rispetto alla quantità di denaro movimentata: i flussi di denaro venivano spezzettati in tanti trasferimenti da 1999,99 euro, sotto la soglia dei 2000 euro che avrebbe fatto scattare le segnalazioni automatiche antiriciclaggio. Per farlo era stato messo in piedi un sistema di documenti falsi, intestati a cittadini cinesi inesistenti, ignari e in qualche caso anche morti. Oltre al giro di nero, dall’inchiesta, sono venuti fuori anche un traffico di merci contraffatte, lo sfruttamento della prostituzione e il gioco d’azzardo. Inoltre, ad alcuni degli indagati, i pm hanno contestato anche l’associazione mafiosa. Al vertice di tutto, dicono le indagini, la famiglia Cai, famiglia cinese che opera in società con un italiano: Fabrizio Bolzonaro.
Un giro che viene fuori grazie ad un’inchiesta iniziata nel 2008. L’avviso di fine indagini e la richiesta di rinvio a giudizio sono della primavera scorsa, ma solo per le notifiche è stato necessario più di un anno. E a questo punto arriva la beffa: nonostante la giustizia conosca i nomi dei sospetti (sino al terzo grado di giudizio nessuno è colpevole, anche se in questa inchiesta ci sono in molti casi diverse responsabilità abbastanza chiare) responsabili del ‘furto’ da 4,5 miliardi di euro, le speranza che riesca mai a perseguirle tendono allo zero. Come spiega ancora Paolucci: “In marzo ci sarà l’udienza dal Gup, ma prima c’è da tradurre in cinese gli atti dell’inchiesta e non è facile trovare traduttori. ‘Chissà se vedremo mai il processo’, si lascia scappare un investigatore”.
Dal punto di vista pratico, del recupero del denaro sottratto al fisco, sono stati individuati circa 50 milioni, il paragone con i 4,5 miliardi è impietoso. Ed in più, se al danno e alla beffa si potesse aggiungere un’altra beffa, come conseguenza dell’arrivo della Guardia di Finanza sono crollati, lo dicono i dati, i trasferimenti di denaro verso la Cina. Ma questo non vuol dire necessariamente che non ci siano i trasferimenti, potrebbe infatti voler dire, ed è assolutamente più verosimile, che questi ci siano ancora ma semplicemente sfuggano agli occhi delle statistiche, e del fisco.