
ROMA- Privati certamente, ma anche nascosti, veloci e con i Carabinieri a portare la salma in un luogo segreto, o meglio in un dimenticatoio. Così sarebbero stati i funerali di Erich Priebke se avessimo avuto uno Stato, uno di quelli con la “s” maiuscola e un’autorità degna di questo nome. Invece, nel capitolo finale della triste ed indegna vita del”ex capitano delle SS di Adolf Hitler, a decidere, o a non decidere, troppi Ponzi Pilati e altrettanti dilettanti allo sbaraglio.
Un mix che ha trasformato l’addio alla vita terrena di Priebke in una vicenda mediatica, che gli ha regalato le prime pagine dei giornali e che ha portato in dote polemiche, scontri, e farneticazioni neonazi quando, una vita come quella del boia delle Fosse Ardeatine, si sarebbe dovuta concludere in sordina. Tutti i morti sono uguali e tutti hanno diritto ad una sepoltura dignitosa e alla carità cristiana hanno sostenuto i lefebvriani che il rito funebre si sono offerti di celebrare.
E se anche su questo a dire il vero qualche dubbio rimane, e senza prendere nemmeno in considerazione le posizioni di neonazisti e neofascisti che il capitano delle SS avrebbero addirittura voluto celebrare, basta leggere quello che scrive oggi Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera per capire perché il cadavere di Priebke, la sua bara e il suo funerale sarebbe stato meglio tenerli nascosti, celebrali in fretta e sbarazzarsene quanto prima.
“Compirebbe settant’anni oggi, il ‘bambino senza nome’. Era il più piccolo degli ebrei romani rastrellati nella retata del 16 ottobre del 1943. E morì senza neppure essere registrato. Che senso aveva, nell’ottica degli assassini nazisti, registrare un essere insignificante? Sua mamma si chiamava Marcella Perugia, aveva 23 anni, era sposata con Cesare Di Veroli (…) La ragazza, raccontano, avvertì le prime doglie la sera del 15 ottobre, poche ore prima della retata al ghetto. Era un venerdì. Arrestata e rinchiusa con gli altri deportati al Collegio militare di via della Lungara, fra il Tevere e i piedi del Gianicolo, i tedeschi consentirono a convocare un medico italiano che, appena giunto, afferma che il parto si presenta difficile e bisogna ricoverare la giovane sposa in ospedale.
Il permesso viene negato e nella notte tra sabato 16 e domenica 17, Marcella Perugia in Di Veroli, distesa su un giaciglio in un angolo del cortile, isolata alla vista degli altri prigionieri, dà alla luce un bimbo: il piccolo, considerato ‘nemico del Reich‘, si trova immediatamente in stato di arresto. Accanto alla giovane madre ci sono gli altri suoi due figli, Giuditta di sei anni e Pacifico di cinque. Saranno caricati insieme sul treno blindato che il 18 ottobre partirà dalla stazione Tiburtina per Auschwitz. Dove Marcella, Giuditta, Pacifico e il ‘bimbo senza nome’ saranno uccisi il 23 ottobre. Insieme a gran parte dei bimbi razziati quel 16 ottobre di pioggia. Al rastrellamento assistette inorridita, tra gli altri, Fulvia Ripa di Meana.
Che avrebbe descritto in ‘Roma clandestina’ i piccoli prigionieri sui camion caricati a Fontanella Borghese: ‘Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva. Non piangevano neanche più quei bambini, lo spavento li aveva resi muti e aveva bruciato nei loro occhi le lacrime infantili’. Neanche uno di quei bimbi, su 288, tornò”.
Questo era Priebke, questo era il nazismo. E per l’ex capitano non vale e non può valere la scusante, seppur assai controversa, del “questi erano gli ordini”. Priebke, il boia, non era un mero esecutore, un soldato che controvoglia si sottometteva al sistema per non venirne schiacciato lui stesso. Priebke, che ha avuto la ingiusta fortuna di vivere sino a 100 anni, nonostante tutto il tempo concessogli per farlo mai ha mostrato un segno di pentimento, né sincero né di convenienza. Erich Priebke era convinto, forse fiero di quello che aveva fatto e di quello cui aveva preso parte.
I morti, è vero, si rispettano. Non è questa una questione di morale cristiana, valeva per gli antichi greci come per gli egiziani, è una questione di civiltà umana. In alcuni casi però, e quello del boia delle Fosse Ardeatine ne è l’esempio forse migliore, vanno messi da parte e dimenticati il prima possibile, perché altro non meritano.
